V Video

R Recensione

8/10

Ulver

Shadows of the Sun

Perchè tu che leggi dovresti bruciare? Voglio dire, parliamone.

Potresti riscaldarti e basta; magari, chessò, potresti addormentarti e cullarti nel tuo sfregato tepore corporeo.

Ma non basterebbe: ti raffredderesti: ti spegneresti: moriresti.

No, caro amico che leggi, il tuo sole non deve spegnersi. Bisogna mantenerlo acceso, farlo bruciare come incenso in paradiso.

E allora, solo quando questo tuo fuoco sarà vivo e rosso e scottante e abbagliante, la malinconia che ti accarezza e che ti bacia nelle notti d'inverno, nei mattini primaverili a cielo d'alba, nelle torride giornata estive, al crepuscolo di foglie croccanti e autunni profumati, solo allora questa malinconia non ti consumerà dall'interno, ma sarai tu a viverla appieno gustandola come miele e cucchiaini freddi in gola profonda.

Tutto bello a parole, ma: servono istruzioni per l'uso.

Inizia a raccogliere legna, ad ammucchiarla tutta insieme nei ripari della tua anima.

Molto bene. Ora prendi un fiammifero, un accendino, una pietra focaia, una fiamma ossidrica, quello che vuoi. Accendi e chiudi gli occhi: annusa l'aria con fare volpino, aguzza le orecchie e senti ogni singolo crepitìo del fuoco. Apri gli occhi e fissa il rosso e le sue scintille.

Benvenuto in Africa.

Ora potete distogliere lo sguardo dal vostro fuoco personale e concentrarvi su quello, ahimè (?) di carta o cristalli liquidi, della cover degli Ulver: è questo il vostro primo passo verso la conquista della primitività.

Gli Ulver, i "lupi" norvegesi, uno dei gruppi più poliedrici della scena attuale e recente: gli stessi di quel “Bergtatt”, mirabilmente black-metal (genere che io, tanto per dirvi, odio); di quel “Kveldssanger”, incredibile opera (d'arte) neo-folk; di quel “Nattens Madrigal”, nuovamente black-bello; di quel “Blood Inside” che è tutto e molto altro di più, forse metal, forse regressive-sperimentale, forse elettronico; di quel “Perdition City”, splendido, splendidissimo album elettro-triphop. E ora, di questo favoloso “Shadows of the Sun”: ambientale, africano, atemporale.

Un safari a piedi nudi nel Continente Nero, che inizia tra implosioni solari, distensioni sintetizzate, vibrazioni di archi e caldissima voce-narrante: il sangue della terra che pulsa sotto i nostri piedi (“Eos”); e così continua questo viaggio, sospeso in un mondo spettrale, cedevole nelle percussioni, il sole che nasce all'orizzonte e le ombre degli alberi che si distendono in una savana di tromba, pianoforte e chiaroscuri vocali (“All the Love”).

 

… e poi, e poi... poi Rygg (il “cantante”) che ci racconta, sotto le note delicate del pianoforte, come amore e musica possano far provare emozioni tremendamente forti, ma che, una volta dissolte, lasciano il nostro cuore lacerato da ferite e ricordi: e la notte che cala sotto un cielo di violini, a metà brano, oscurando erba e natura, pellicce e animali, noi e i nostri piedi (“Like Music”). Perché è questo il tema centrale di “Shadows of the Sun”, un quadro dalle tonalità sfumate e ombreggiate, costante nella sua calma spirituale, nei suoi riverberi mistici, violacei, crepuscolari: sonorità intimiste, dense di costruzioni ambient e melodie corali suggestivamente etniche (“Vigil” e “Shadows of the Sun”).

 

Quello che contempliamo, ascoltando l'ultimo lavoro degli Ulver, è il paradiso selvaggio e incontaminato (vabbè, meglio non approfondire...) dell'Africa; una terra magnetica, primordiale, custode del fuoco che consuma i nostri sentimenti più carnali, i nostri istinti più irrazionali: è la terra delle anime.

 

Come possiamo rimanere insensibili di fronte al risveglio di questo mondo? La tromba del vento che muove le mani degli alberi, gli occhi di tanti piccoli, grandi, enormi animali che si aprono al ritmo delle percussioni, l'alba che nasce in un crescendo epico di sigurrosiana memoria(“Let the Children Go”); e come tacere davanti a una radura avvolta nella notte, mentre leoni e gazzelle e uccelli in volo corrono per la vita e la vita, scanditi da ritmi sinuosamente jazz (“Solitude”, cover dei Black Sabbath). La poesia di questo mondo non ha fine: il fascino di un notturno sublime (“Funebre”) apre i petali di un gelsomino che disperde nell'aria odori pascoliani: danzano nell'aria, viaggiano in cerchio, si ricongiungono alla vita che dorme, e, intimamente, piangono per un nuovo sole che nasce ("What Happened?”).

 

Ma è un sole che nasce o uno che muore quello che trema alle spalle del bellissimo gnu di copertina?

V Voti

Voto degli utenti: 7,8/10 in media su 7 voti.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
KSoda 8/10
luca.r 7,5/10

C Commenti

Ci sono 4 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

skyreader (ha votato 8 questo disco) alle 9:22 del 12 maggio 2010 ha scritto:

Fosche Tinte del Paradiso

Ha ben descritto Filippo... questo è sicuramente fra gli album più intensi e profondi (nel senso dotati di uno spessore umorale e sonoro abissale) dei primi anni del millennio. La magia è già prendere consapevolezza di come un ardore di ispirazione "black-metal" possa tramutarsi alchemicamente in un "ambient" densissimo, senza perdere un atomo della sua materia oscura. E ancora una musica che scorre cupa sotto un cielo offuscato, che sembra condurre nel cuore di una immensa tenebra.

Marco Di Francesco (ha votato 8 questo disco) alle 10:25 del 14 maggio 2010 ha scritto:

Bello, bello, bello, molto intenso davvero. Viscerale. Belle descrizioni

Norvegese (ha votato 5 questo disco) alle 10:49 del 14 marzo 2011 ha scritto:

alla lunga troppo monocorde...nonostante alcuni buoni momenti diventa noioso

Mushu289 (ha votato 9 questo disco) alle 15:52 del 21 agosto 2015 ha scritto:

disco molto intenso, atmosfere indescrivibili, fantastico