Tim Hecker
Ravedeath, 1972
Registrato in una chiesa sperduta in quel di Reykjavik, Ravedeath 1972 è il sesto album del musicista canadese Tim Hecker, uno dei nomi di punta della scena ambient dell’ultimo decennio. Fondamentale per la realizzazione del disco è stato l’incontro con il produttore Ben Frost (autore nel 2009 del folgorante “By The Throat”), che risiede proprio nella capitale islandese. Ed è sicuramente a seguito di questa collaborazione che il sound di Hecker ha subito una svolta rispetto alla fase passata della sua carriera, il cui apice è senza dubbio rappresentato dall’allucinante affresco “sinfonico” di Harmony In Ultraviolet.
Ravedeath 1972 si presenta sin da subito come un’opera complessa e dal taglio subliminale, che cerca pian piano di farsi spazio nei più remoti strati dell’inconscio. Scenari desolati, paesaggi spogli e gelidi vengono descritti con straordinaria forza espressiva attraverso lunghe frasi di organo, rintocchi suggestivi di piano e squarci drone/noise che, invece di conferire un carattere aspro al tono generale del disco, sono portatori di un linguaggio ipnotico e “metafisico”. È certamente musica dall’indubbio anelito trascendente: tuttavia non si tratta di un’”ascesa” leggiadra e confortevole, ma di una continua battaglia tra la spinta evocativa delle partiture di organo e le sferzanti folate di vento rappesentate da veri e propri tour de force noise post-moderni.
Le fonti principali sono sicuramente la scena elettronica tedesca degli anni ’70 (Klaus Schultze, Tangerine Dream e i primi Popol Vuh su tutti), filtrata però dall’esperienza dei più moderni Fennesz ed Eluvium, per arrivare infine alle astrazioni neo-cosmiche di Oneohtrix Point Never (in particolare con quest’ultimo condivide l’utilizzo “estetico” del rumore e la fascinazione per i suoni sfumati, dal sapore gotico/hypnagogico). Ma si tratta comunque di un lavoro originale e del tutto personale, prodotto con un approccio forse anche un po’ troppo severo e austero (a tratti sembra quasi di trovarsi di fronte a un compositore di musica classica che si è appena avvicinato all’ambient/drone), però potente, vivido, vitale.
E così The Piano Drop (a cui è collegata la suggestiva copertina) rappresenta sin da subito un tuffo in un’atmosfera rarefatta ed evanescente, portata ai massimi livelli nella monumentale suite in tre parti In The Fog, ovvero un titolo-un programma: si ha la netta sensazione, lungo il fluire inarrestabile della composizione, divisa tra echi industrial, droni eterei e ipnotiche linee d’organo, di perdere il controllo della propria percezione mentale, la quale viene del tutto offuscata e annebbiata. Difficile trovare in giro qualcosa che suoni così suggestivo. E tutto il disco scorre in questo modo: due altre suite offrono tantissimi spunti interessanti, prima Hatred Of Music, dallo spiccato impatto sinfonico e cinematico, poi la conclusiva In The Air, ovvero la quiete dopo la tempesta, la definitiva pace dei sensi. Nello scontro dicotomico tra celestialità e inferno alla fine trionfa il Bene. Anche se le angoscianti suggestioni thriller di Studio Suicide facevano pensare per un attimo a una lenta discesa verso il basso.
Opera complessa e commovente, Ravedeath 1972 è il luogo perfetto in cui rifugiarsi dalle tante proposte vuote da cui siamo circondati quotidianamente. Uno splendido squarcio di luce, proiettato nell’infinito.
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