Andy Stott
Faith In Strangers
A due anni dallo splendido Luxury Problems, Andy Stott torna con un disco che ne prosegue la scia, aggiungendo novità che però indirizzano verso direzioni diverse, da una parte con un approfondimento dellaspetto ritmico e vocale, dallaltra con unopposta svaporazione, verso lidi propriamente ambient. Ne risulta un lavoro più incerto e spurio del precedente, ma ben vivo.
La costruzione di Faith In Strangers somiglia a quella di un guscio, che protegge i pezzi più violenti con strati di ovattate insonorizzazioni tra grigiume industrial privato del beat, lasciti post punk ridotti a scheletri electro e droni metropolitani su tastiere di catrame: sono, direi, i momenti migliori del disco, in apertura (Time Away, con euphonium) e in chiusura (Missing, con un attacco che potrebbe essere dei Raime), e mostrano come sia questa strada, detritica e aritmica, quella dove Stott dà il meglio.
È, per un caso, anche la zona del disco dove minore è lapporto vocale di Alison Skidmore (in realtà tagliente a perfezione nel pezzo finale, dove mugugna e poco più), che viene sfruttato a pieno e al meglio in altri episodi forti del disco, ma senza la continua spettacolarità del disco precedente. In modo nuovo, comunque: Faith In Strangers è senzaltro il momento più pop mai raggiunto da Stott, con una melodia piena di grazia e tastiere avvolgenti che danno in una volta sola tutto il calore che il resto del disco nega. Violence, dallaltro lato, si costruisce sullintreccio di bleeps cacofonici e la voce spettrale della Skidmore, rinviando solo ai 230 lingresso del beat (dunque bisogna ascoltare nove minuti di vinile prima di sentire il primo battito: per dire), sotto al quale poi si coagula il consueto sozzo peciume di bassi e distorsioni terrose di cui Stott è maestro.
È qua, in mezzo a questa cornice, nel nucleo, che si concentra la parte più loud del disco, con Stott che spesso gode a pestare su ritmi martellanti, tra interpolazioni space ambient rumorosissime (labrasione totale di No Surrender) e sferragliamenti industriali puri (Damage). Lattrito rispetto agli estremi del disco è palese, e un po lo stridore appare eccessivo, tanto più in mezzo a passaggi Uk bass un poco scolastici, sicché fa bene il motorik meno scartavetrato di Science & Industry.
Limpressione, in ogni caso, è che qua non riesca del tutto la dialettica tra verticalità paradisiaca e magma ctonio che esaltava Luxury Problems (forse solo An Oath, qua, ne è la vera continuazione), proprio perché Stott ha preferito dividere i due movimenti, giustapponendoli soltanto. Laltra impressione, in compenso, è che continui a essere attivo qua e in pochi altri produttori il vero laboratorio dellelectro a venire.
Tweet