R Recensione

6/10

Amon Tobin

Foley Room

Già alle porte delle prime tracce di Foley Room ci si accorge di stare lentamente sprofondando in un gorgo nero e freddo di oscure soundscapes, e di non riuscire fare altro che soccombere al denso magma dark-urban che il dj brasiliano (ma inglese d’adozione) fa strabordare come un blob dalle casse dello stereo, mettendo a dura prova la nostra psiche, peraltro gia messa seriamente sotto esame dai tempi accelerati e ansiosi che stiamo vivendo.

Continuando a tessere quelle atmosfere angosciose e malsane già esposte nella colonna sonora del videogioco ‘Sprinter cell 3’ del 2005, nel settimo album di Amon Tobin sempre su Ninja Tune lo vediamo andarsene in giro, armato di microfoni sensibili e registratori d’ambiente, nelle vesti di cercatore di rumori e suoni da cucire insieme in un idea di ‘musica concreta da nuovo millennio’.

Da qui il titolo dell’album: le ‘Foley room’ richiamate nel titolo del disco, nel gergo cinematografico sono le stanze in cui vengono creati gli effetti sonori utilizzati per i film. Analogamente ai suoni utilizzati nelle pellicole, in cui qualsiasi rumore che sentiamo (dal passaggio di un’auto ai passi di una persona al soffio del vento) è studiato attentamente e poi riprodotto, cosi racchiusi nelle dodici canzoni troviamo il ruggito di una tigre, il motore su di giri di una moto, il suono dell’acqua, un gatto che sgranocchia un topo e via dicendo, a creare un film mentale plumbeo pieno di scintillii metallici e affilati.

Il tutto amalgamando alla varietà ritmica sviluppata nei background jazz e breakbeat del brasiliano le preziose collaborazioni del Kronos Quartet, dell’arpista Sarah Page e di Stephan Schneider dei grandi To Rococo Rot ( e Music Am ).

Però più lo si ascolta e più si fatica a capire che tipo di fruizione possa avere questo album: non è materiale da club e non contiene elementi di aggiornamento al già detto o ad un particolare quadro musicale.

Ma si fatica ad affidarsi a questo album anche per l’ascolto casalingo : proprio come è successo al sottoscritto, vi prende, poi vi solleva di forza dalla vostra poltrona preferita attaccata allo stereo e vi scaraventa giù in strada.

E una volta di sotto vi avvolge in una sensazione di paura e tetraggine notturna.

Come essere sul fondo di un lago melmoso con tutta l’acqua sopra e attorno a te che non è altro che il cielo nebbioso punteggiato dagli umidi aloni dei neon nella notte di una qualsiasi delle nostre città.

Quale altra colonna sonora è possibile allora se non il breakbeat motorizzato post-industriale di ‘Esthers’, i frammenti di dubstep anfetaminizzata tutta lame luccicanti nel buio di ‘Kitchen Sink’ e della titletrack, i profumi di spezie orientali a scorrere sotto il fitto pulviscolo del beat di ‘Keep your distance’, il Kronos Quartet in versione dark-horror dell’ iniziale ‘Bloodstone’ .

The Killers Vanilla’ , ‘Big Furry Head’ ‘Ever Falling’ si muovono sui bordi delle strade percorse magistralmente da Alias in ‘Muted’ nel lontano 2003.

A voler trovare paragoni a tutti i costi vengono in mente anche gli esperimenti di un altro grande manipolatore quale Herbert, o le geniali bizzarrie di ‘The Rose Has Teeth In The Mouth Of A Beast’ dei Matmos .

Ma tutto molto molto più intricato e meno giocoso .

Quasi a volersi prendere troppo sul serio .

Inutile dire che dal signore che nel 2000 ci aveva servito Supermodified ci si aspettava, ancora una volta, qualcosa di più .

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