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R Recensione

7/10

Venetian Snares

My So-Called Life

Prima release per la nuova personalissima label del canadese Aaron Funk meglio conosciuto come Venetian Snares, principe del genere breakcore. Ad un anno dalla violenza crudele del welshiano Filth Aaron decide di affidare la presentazione del suo progetto discografico a My so called life, un album che, nome omen, è infarcito di riferimenti autobiografici. Lo stesso autore afferma che ogni traccia è stata composta in massimo due giorni di modo da fotografare dove si trovasse la sua mente in quel preciso istante. Immaginate allora di assistere ad un Grande Fratello ambientato su un ring di wrestling dove si mescolano perfettamente testosterone, abilità atletica e gusto per la farsa il tutto shakerato in una lattina di Super Tennent’s da 9 gradi, la birra degli hooligan (tra l’altro ottima arma da lanciare contro fonici disubbedienti…).

Questo non è un disco di grandi innovazioni, capolavori, o comunque di astruse sperimentazioni, quanto piuttosto una raccolta di dieci canzoni oltre il muro del suono in cui tornano a vivere riff di pianola à la Ceephax e sicopate percussioni jungle, ma soprattutto è volta a svelare l’ironia di un personaggio che ancora si diverte a suonare ai rave davanti a folle di ragazzi fluorescenti e sballati (disprezzando invece i presenzialisti perennemente col cellulare in mano: l’apertura di Posers and camera phones) sicuramente troppo giovani per aver conosciuto i fasti dei good old times e successivamente essersi persi nel darkcore.

Largo, quindi, agli hackers dell’hardcore continuum quelli che, per molto tempo rimasti nascosti sotto le lunghe coperte dell’IDM e quelle un pò più corte del post jungle d’assalto drill and bass, ora manovrano beats come missili terra-aria impazziti attraverso i loro mille virus/plugins mentre la gente ignara contempla pacifica le scintillanti ritmiche post garage.

Come in un film di Tarantino (ma quanto si sente la sua influenza nel mondo dell’house e della techno?) le citazioni sono innumerevoli: l’hook vocale look at me look at you rubato ai Cassius nella opening track, il basso Mentasm in Cadaverous, spezzoni di vecchi film o il primo accordo di chitarra di I feel you dei Depeche Mode in Who wants cake? (subito straziato in una marcia funebre in fast forward). In Welfare wednesday si arriva addirittura a condensare in pochi minuti la storia della Techno partendo da Strings of Life per arrivare alla Londra rave degli anni ‘90 e quindi al neo rave armageddon di stampo Bang Face. Che dire di Ultraviolent junglist? A me piacerebbe definirla un’usurata carta d’identità sonora senza fronzoli con alla voce segni particolari: una catena d’effetti lunga un kilometro!

Nella seconda metà del disco si affacciano strumenti acustici che sembrano portare ad un’impensabile svolta classica ma che invece puntualmente collassano in breaks talmente compressi da poter essere ballati a tempo soltanto da invertebrati. Sicuramente non è roba per il grande pubblico ma i fans avranno già acceso i glowsticks.

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tramblogy alle 18:21 del 17 settembre 2010 ha scritto:

ussiggnooorrr...