4 Hero
Play With The Changes
Se i Bugz In The Attic rappresentano l’incarnazione più caciarona e caotica del broken beat, i 4 Hero hanno sempre costituito l’anima stylish del fenomeno, fin dalla svolta di 2 Pages (1998), che rompeva i ponti col passato drum’n’bass e si apriva a nuovi percorsi sonori: gli stessi che di lì a poco li avrebbero resi appunto capofila della battuta spezzata.
In questo Play With The Change (primo disco da sei anni a questa parte), il suono si scalda con le raffinatezze della deep house orchestrale di scuola Nuphonic, concedendosi spruzzate di jazz, e allo stesso tempo rivelandosi una sorta di versione rivista e corretta per il nuovo millennio dei suoni del philly soul degli anni ’70: arrangiamenti orchestrali, archi a profusione, produzione vellutata e lussureggiante.
Ascoltare per credere il midtempo di gran classe Morning Child o il sinuoso nu soul di Take My Time, battuta lenta e bpm ai minimi storici. Il broken beat si affaccia solo con Look Inside, dove si flirta amabilmente col jazz, pur senza rinunciare ad archi e strizzate d’occhio alla deep, e resiste nella soffusa Sink Or Swim, pur tornando a scalciare solo in punta di piedi.
E si prosegue così, con un suono ben cesellato che alterna livelli di eccellenza ad altri di noia: che il rischio di affondare in queste sonorità è elevato e il pericolo di annoiarsi supera spesso i livelli di guardia. Tanta levigatezza tende a precipitare pezzo dopo pezzo nella monotonia, e spinge il disco a passare progressivamente sullo sfondo e divenire mera tappezzeria sonora .L’omogeneità di fondo spinge a dare giusto un’occhiata distratta al lettore per gli aromi latini della titletrack o per la pur divertente Something In The Way, ma è ormai una sfida in salita per riconquistare l’attenzione dell’ascoltatore.
Ed è solo con Awakening e l’intelligente spoken word della “solita” Ursula Rucker che le antenne ricominciano a captare le onde radio ad un livello non subliminale, tese a cogliere le parole della slam poetry della Rucker e ad assaporare le spezie be bop in sottofondo.
E poco dopo ti volti di nuovo verso il lettore a controllare che non sia partito su per errore un disco di Stevie Wonder: in realtà si tratta di Terry D, ma il gioco di prestigio riesce bene. Segue l’ennesima capatina nel jazz, un’ultima frullata nel broken beat virato soul, e a chiudere il loop cacofonico e un po’ fuori posto di Dedication To The Horse.
È un disco che procede lineare ma a strappi, questo, un po’di estro e un po’ di mestiere, in cui il rischio di scivolare giù per il baratro della monotonia o di cadere prigionieri delle spire del barocchismo sono sempre scongiurati in extremis da uscite sopra la media e da comparsate particolarmente riuscite. Una spanna e mezzo sopra “il resto”, ma con qualche riserva.
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