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R Recensione

6/10

STRi

Canyon

Nascono nel 2011, sono in due (Alberto Canestrari e Nicola Battistelli), vengono da Pesaro, si autoproducono i dischi e stanno entrando di soppiatto nella ravvivata scena indietronica italiana accanto a nomi già più affermati come Maria Antonietta, Casa Del Mirto, Colapesce, Port-Royal, Gatto Ciliegia Contro Il Grande Freddo, Soviet Soviet o Amor Fou. Loro sono gli STRi e “Canyon” è un disco lungo come un vecchio LP di 35 minuti con 8 brani caldi che anticipano l’estate ventura, omogenei dal punto di vista sonoro e dal fragrante sapore club. Il fatto che “Canyon” sia autoprodotto non influenza assolutamente la qualità del suono, anzi va detto che la sapiente mistura di chitarre, kick e synth, seppur semplice, appare decisamente azzeccata, come pure indovinata risulta la saturazione dei colori nella grafica di copertina. Gli STRi suonano un genere che definiscono dream-club e che in pratica è il crocevia tra la sweet house, il post-rock e l’emotronic.

Il pezzo di apertura è “Cœur Caché”, e già il sapore dell’estate alle porte si fa invadente: pochissime variazioni timbriche, cori appena accennati e chitarrine deliziose, il tutto immerso in una salsa agrodolce che lascia un po’ di malinconia. Subito dopo arriva il remix di “LL” (il brano originale è di Death In Plains, alias Enrico Boccioletti) e gli STRi la rendono una canzone propria, con un mix riuscitissimo di pad eterei e chitarre in controtempo, con la sezione ritmica travolgente, quasi spaccawoofer. “Summerize” ci riporta al clima afoso di luglio ma il sound si fa dannatamente più aggressivo, tanto che il background alternative rock dei due giovani musicisti vien fuori in tutta la sua irruenza. “Conifere” offre poi una soluzione intelligente di tamburini e chitarre post-rock, proponendosi come traccia da decompressione: anche qui di sovvertimenti ritmici non ce ne sono e il pezzo fila liscio. Il mood cambia completamente con “Ranma”, e il gioco degli STRi si fa ancor più interessante; quando l’altezza delle frequenze del synth diviene troppo invasiva la contemporanea linea vocale ne risulta frammentata, creando un finto effetto delay. Il risultato è apprezzabile e anche questa traccia si lascia ascoltare con piacere, fino alla successiva “Wimbo”, il pezzo tribale di “Canyon”. “Wimbo” sembra infatti un giocattolino rotto, un’operetta al salterio, un africanismo del terzo millennio; la sua forza, essendo forse l’episodio più coinvolgente dell’intero LP, sta nell’intreccio di linguaggi davvero molto lontani fra loro. Pare infatti una release della Morr Music, ma anche della Royal Drums, e potrebbe esserlo anche per la Warp Records: questo per dire che gli STRi riescono a sposare tribalismo, indie ed elettronica con grandissimo savoir-faire. Sarà solo con “Caldo” che il rock sperimentale uscirà in tutta la sua genuinità, regalandoci un pezzo bellissimo, con le tipiche dilatazioni drone accompagnate dai tipici arpeggi post-rock, in un’avvolgente estasi di effetti digitali e voci lontanissime. L’ultimo pezzo è proprio “Canyon”, summa breve e stranissima dell’intero CD; ancora voci, lontane e riverberate, e ancora effetti sonori sgangherati, con la novità che la batteria suona quasi jazz.

A mio modesto avviso, non si può parlare qui di maturità artistica, ma certamente la strada imboccata dagli STRi è quella giusta. Nel futuro prossimo credo che avranno due sfide da raccogliere: la prima riguarda il cantato e consiste nel cantare di più e, per dovere di chiarezza, nel decidere in quale lingua farlo; la seconda sottende la trama complessiva e consiste nell’eventuale aggiunta di ripartenze e rotture. Ad oggi possiamo solo affermare che “Canyon” è un buon disco e gli STRi una bella realtà emergente.

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