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R Recensione

8/10

Robert Owens

Art

Sono trascorsi poco più di due anni da quando il Messia (esagerato? Ok, il Profeta) resuscitò per raccontarci, cheek to cheek, il fuoco e le lacrime di quelle “Night-Time Stories” da molti – compreso il sottoscritto – ritenute lascito house fra i più emozionanti del decennio appena trascorso. Classicità deep rinvigorita dalla contemporaneità del tratto (ossia da produttori à la page): un miracolo che soltanto a Robert Owens, simulacro vivente ed emblema dei primi natali della “caaasa”, poteva riuscire così bene. Talmente bene da aver convito il Nostro, anno domini 2010, a bissare con qualcosa di ancor più temerario, megalomane, spiazzante e familiare al medesimo ascolto. Qualcosa con le stigmate dell’ “opera d’arte” ben visibili (e sanguinanti), fin dal titolo.

Il doppio “Art” è per certi versi similare a un altro “punto di non ritorno” della house, datato 1997: “Romanworld” di Romanthony. I motivi sono presto detti: entrambi doppi cd; entrambi esempi di house riplasmata come corpo flessibile, recettivo nei confronti delle istanze limitrofe, siano esse soul, blues, pop, jazz; infine, ambedue animati dall’incomprimibile “desire” di leggere la house come precipitato “implosivo” della black, territorio in cui l’individuo (cantante) riacquisisce la propria centralità in quanto polo preferenziale dell’esposizione, più che come monarca del processo creativo. Questa riaffermazione del “soggetto” – paradossale, in una musica dai più concepita come trasposizione di impersonalità – informa un dettato la cui peculiarità è opporsi al dilagare della minimal, al livellamento delle produzioni odierne, alla riduzione del tutto a “suono”. Questa la battaglia del cantante house, sciamanico motore di catarsi spirituale. La sua ricetta vincente? “Be unique”. Coltiva il tuo “io”. Sii unico.

Ansioso di lasciare un segno imperituro anche in questa sua seconda giovinezza artistica, Owens persegue testardamente il proprio ideale di unicità, facendosi rappresentante di black music tout court pur partendo da un luogo ben preciso, la house vocale (vissuta come tappa del continuum soul/r&b). A tale scopo, decide di avvalersi non solo di alcuni fra i produttori più talentuosi – guarda caso europei, per lo più tedeschi – in circolazione (Atjazz, il duo Beanfield, Show-B), ma persino del suo alter-ego e collaboratore di lunga data Mr.Fingers alias Larry Heard (il padrino della deep-house, già con Owens nei Fingers Inc.). Il risultato sono questi due ricchissimi cd usciti per la tedesca Compost, fatto che la dice lunga su come la partita, gli artisti elettronici (siano essi rappresentanti di techno, minimal, dubstep o quel che più vi garba), ormai se la giochino quasi esclusivamente in Europa.

Il primo dei due, “Vault 1”, è sorprendente, proprio perché abdica sovente il “four-on-the-floor” in favore dell’intimità soul, della bassa battuta, dei velluti jazz; microcosmo di combinazioni che coinvolgono e riattualizzano i segni di una dialettica antica, emozionalmente imprescindibile. Fin dall’uno-due iniziale prorompe lo sgranarsi sentimentale di arpeggiati e beat soffusi, con Heard che accentua ora la linearità dello sviluppo (“Pipe Dreams”), ora una leggera increspatura swingbeat (“Black Diamond”); mentre l’imprendibile Owens, la voce riflessa in una stanza degli specchi, interagisce col coro in un turbinio di bassi leonini e falsetti fragili come cristallo, padrone di un universo gestuale sempre più vasto, sempre più personale. Altrettanto essenziali le altre visioni “heardiane”: “Art”, electro noir ed estatica; “Counting Blessings”, pregna di drammaturgia religiosa (“Father, you opened my eyes and allowed me to see/ something more than shallow victory”); una “Sacrifice” dagli inestricabili contrappunti tastieristici (anche un mellotron pare della partita), virtuale ragnatela di codici morse.

Incredibile a dirsi, le tracce prodotte da Atjazz sono persino più avventurose (il che è tutto dire), segnate da un continuo interloquire fra tecnologia e live playing. Nella sconvolgente ballata “Reach Inside” il raffronto fra le sincopi della ritmica (morbida, interamente organica: contrabbasso, percussioni e batteria) e le tastiere “detroitiane” sembra configurare un’ibridazione fra i Weather Report di “Orange Lady” e Derrick May, il tutto sotto lo sguardo benevolo del santone Terry Callier. “Hearts And Soul” sfoggia moveze acid jazz, rhodes squaglianti e note di moog retrò che piovono a catinelle. L’incalzante new r&b di “Wonderful” è impostato su un motivetto sbarazzino e breakbeat “è tutto rullanteeee!”, laddove “Same Old Thing” ci mostra una plausibile fotografia recente di D’Angelo (ma quanto ci manca?). Forse è però “One Love” ad ergersi a capolavoro fra i capolavori: l’amore martoriato, desolazione di una metropoli, tappeti di synth a lacrimare ghiaccio, basso funk (intermezzo freatless compreso), drum machine che schiocca come una frusta... Impossibile fare di meglio.

Se paragonato a tanta magnificenza “Vault 2” rischia di passare in sordina, essendo manifesto dello stile più riconoscibile e “sicuro” di Owens: deep-house ipnotica (forse mai così oscura), forma “attualizzata” di gospel in flusso libero con tanto di “call & response” fra solista e coro. Ma anche qui le sorprese non mancano. “Rise”, ad esempio, è una delle cose più entusiasmanti registrate dal cantante di Chicago, nonché perfetto showcase per i talenti di un produttore come Show-B. L’idea di partenza, tanto semplice quanto efficace, è quella d’inframmezzare la cassa a un loop contorto dal sapore jazzato, in modo che ciascun colpo di rullante, posticipato di una frazione di secondo rispetto al beat, ne diventi l’ombra. L’accorgimento genera una costante tensione fra cantato in multitraccia (rimarcabilmente bluesy), base poliritmica e “polpa” sonora (il riff di chitarra in muting, i synth che a 2:55 spiccano il volo e precipitano al suolo), per quella che appare come una vera e propria suite.

Spettrale catechesi o luminoso esorcismo, “Unique” tenta di scongiurare l’omologazione (culturale e musicale) attraverso un uso spregiudicato delle basse frequenze (caratteristica portante anche dell’altra traccia prodotta dai Beanfield, “It Takes Me High”). “Moments” è pura allucinazione uditiva, segregazione e ricombinazione mitotica di campioni fluttuanti fra i canali stereo. “Step Inside The Moment”, ancora con Heard in cabina di regia, sfiora il mantra dark (sembrano materializzarsi i Coil in quell’ostinato di basso, negli inquietanti vocals “trattati” in sottofondo, nei bordoni d’organo, nella recitazione sadica di Robert); laddove “Cherish Your Love” è il congedo triste firmato Atjazz, crepuscolo soul-jazz in ultimo ricondotto all’abbraccio quasi materno della “cassa”. “All I wanna do, girl, is make you smile…”.

Vulnerabile, roboante, melodrammatica, dionisiaca. La voce di Owens attraversa “Art” e scuote le membra, costringe alla catarsi (il sortilegio vocale dal sapore afro in “Ancestral History”). Ci parla di un uomo e della (sua) vita, del (suo) dolore, della (sua) gioia. Una voce per la quale Chelonis R. Jones farebbe carte false. Una voce che nella Title-track si contorce dolorosa, fra i falsetti del Marvin Gaye affacciato sul baratro in “Flying High (In A Friendly Sky)” e il terrore di un Tim Buckley che cerca di non soccombere alla voragine invisibile di “Lorca”. “Art” è il regno incantato nel quale il canto cerca riparo, abitandone gli spazi. Difficile stabilire se questi due nuovi capitoli del percorso “owensiano” siano un approdo definitivo o il trampolino di lancio per nuove esplorazioni. Fatto sta che ci fissano dal loro empireo, tremendamente comunicativi e magmatici come non mai, in quella che è la celebrazione di uno dei più grandi artisti americani di sempre.

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sarah 8/10
REBBY 4/10

C Commenti

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sarah (ha votato 8 questo disco) alle 12:53 del 2 novembre 2010 ha scritto:

Matteo e Robert regnano.

synth_charmer (ha votato 7 questo disco) alle 21:28 del 10 novembre 2010 ha scritto:

ohi, gran bel disco. Eppure quello che avevo letto in giro non mi aveva spinto troppo a procurarmelo qui ci voleva Los. Il primo disco in particolare, bellissime le sfumature black/soul, un'oretta abbondante di musica d'ascolto, calda e sensuale. Il secondo, più "muscolare", è valido ma mi prende meno. Si sente tutta la presenza di due pesi massimi. Secondo me se avessero condensato tutto in un solo disco, eliminando qualcosa, gli avrei dato mezza stelletta in più.

Utente non più registrato alle 23:30 del 11 novembre 2010 ha scritto:

Disco dell'anno per me, capolavoro.

Utente non più registrato alle 23:31 del 11 novembre 2010 ha scritto:

Ah, la rece è grandiosa...

loson, autore, alle 18:32 del 13 novembre 2010 ha scritto:

Grassie, ragassa e ragassi. Contento che il disco vi sia piaciuto.

Totalblamblam (ha votato 7 questo disco) alle 19:23 del 14 novembre 2010 ha scritto:

RE:

aspetta a me mica tanto eh si ben suonato bel sound ben prodotto bella cover bel titolo smargiasso tutto quel che vuoi ma nel complesso piatto senza nerbo. lui gioca sul sicuro non rischia mai nulla...i pezzi partono tutti molto bene ma alla lunga si afflosciano nell'insipido...non brutto ma alla lunga stanca ergo le 4 stelle del capolavoro proprio no

loson, autore, alle 23:20 del 14 novembre 2010 ha scritto:

RE: RE:

Non ne dubitavo.

folktronic alle 0:10 del 15 novembre 2010 ha scritto:

uella'...anche su Onda rock gli hanno dato un 8...azz...

sarah (ha votato 8 questo disco) alle 11:38 del 15 novembre 2010 ha scritto:

ondarock

folktronic, e un bel "chi se ne frega" non lo aggiungi? )))

folktronic alle 12:10 del 15 novembre 2010 ha scritto:

vabeh...era scontato..)

FrancescoB (ha votato 7,5 questo disco) alle 14:25 del 12 giugno 2013 ha scritto:

Il lavoro, a distanza di tempo, ha conservato tutto il suo fascino. Perfetta la disamina di Matteo, che coglie sempre nel segno. Forse non un capolavoro tout court (colpa di qualche lungaggine di troppo), ma ci siam vicini per quanto mi riguarda.