Carl Craig
More Songs About Food and Revolutionary Art
Il mio problema con la musica elettronica da ballo era la sua esagerata fisicità, il suo protendersi esclusivamente verso il piacere sensoriale, dimenticando completamente il significato.
Essenzialmente, la dance (techno, house e figliocci vari) mi suonava come esasperatamente edonistica, e nel senso peggiore del termine (una sorta di frullato: gustoso, ma concepito solo a uso e consumo di qualche nottata balearica, privo di qualsiasi valore al di fuori di quel contesto); una musica intrisa di superficialità, priva di una qualche esigenza comunicativa, di intelligenza lirica, di un messaggio capace di smuovere corde più profonde e personali.
Fortunatamente, qualche anno fa, è arrivato tale Carl Craig da Detroit, noto anche come il Miles Davis della dance (o qualcosa del genere), a rifilarmi un paio di sonori ceffoni, costringendomi a rovesciare i miei giudizi.
Non mi dilungo sull'importanza centrale del musicista per la Detroit Techno (della seconda ondata), anche perchè conosco poco al riguardo, e finirei con il ribadire banalità e concetti triti e ritriti.
Mi voglio soffermare invece sulle qualità impressioniste della sua proposta musicale.
More Songs about Food and Revolutionary Art (chiara evocazione di un vecchio capolavoro dei Talking Heads) è un disco meraviglioso, perchè aggiunge alla stupefacente ricchezza timbrica e ritmica della migliore musica elettronica possenti dosi di melodia e di calore umano, imprevedibili aperture orchestrali, suadenti tappeti ambient.
Perchè riesce nel miracolo di trasformare un genere asettico, tetro e anche elitario come la primigenia techno di Detroit in una baldanzosa suite intrisa di momenti soul-jazz.
Craig non è solo un manipolatore di aggeggi elettronici e di subwoofer, è anche musicista nel senso più tradizionale del termine (suona il pianoforte sin dalla più tenera età): ed allora la tempesta di ritmi della musica elettronica può arricchirsi di una piacevolezza melodica sfavillante, può riscoprire l'armonia, i cambi di tonalità e tutto il corredo.
Techno, Ambient, Soul e Jazz, anche un pizzico di House progressiva: Craig non si pone limiti, sfrutta frammenti e peculiarità dei generi più vari per raccontare una storia nuova.
Ecco, altro dettaglio importante: la tensione narrativa e palpabile che aleggia in tutto il disco è un altro dei motivi che mi hanno indotto all'adorazione completa, oltre che a muovere i primi passi in una galassia dai contorni sfumati per me allora completamente vergine.
Si parte con Es, che volteggia come l'ambient più impetuosa, mentre un battito cardiaco, appena accennato sullo sfondo, ne smuove la paralisi austera. Ma è con Televised Green Smoke che si corre pericolosamente dalle parti del capolavoro: un beat circolare disossato introduce un tema di stampo soul-jazz che Craig giostra e rivitalizza con impagabile eleganza. E che belli quei refusi da videogioco che ti strappano un sorriso, in mezzo a tante scintille di colore: qui pare di vedere una sala computer robotizzata dove tutto si muove in autonomia, in perfetta simbiosi con il resto.
Goodbye World sono Bowie ed Eno alle prese con la solennità del soul, mentre Red Lights (che torna ancora dalle parti della capitale tedesca) stordisce a forza di corposità sonore e impennate di colore.
Dreamland è invece più vicina alla techno tradizionale, ma ancora una volta è il dato melodico a meravigliare: sembra di essere catapultati in stato di trance in mezzo a qualche luccicante pista da ballo, fra luci sconnesse e congegni difettosi.
Butterfly è piano da sarabanda jazz che si reinventa stupefacente tavolozza di timbriche e di ritmiche che spuntano da ogni dove: un pezzo mai sentito prima di allora e che resterà difficilmente avvicinabile. Il minimalismo profondo ed un po' tribale di Dominos prelude invece alla straordinaria vivacità di tessiture oscillanti di At Les, altro pezzo da tramandare ai posteri.
As Time Goes By è gemma deep-soul, cupa e metropolitana come solo la techno più underground. Giusto Attitude, interludio all'insegna di stranianti giochi vocali, mi suona leggermente fuori tiro: perchè Food and Art è invece degnissimo capitolo conclusivo di un lavoro (come da titolo) rivoluzionario.
Che infonde nel genere meccanico per eccellenza una tensione narrativa aliena e ne rinnova in linguaggio.
Non c'è quindi modo di arricciare il naso, davanti a cotanta bellezza; neppure per chi è poco avvezzo ad apprezzare questa musica, lontano dal dancefloor: perchè qui non c'è scusa che tenga, bisogna soltanto inchinarsi e ringraziare il novello Miles Davis per questo enorme regalo.
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