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R Recensione

7/10

David Lynch

The Big Dream

Quello che per Mallarmé stava dietro il bianco e l'azzurro, per David Lynch sta dietro il nero ed il blu. Meglio: dietro le sfumature dell'iride che sussumono l'idea di un contorno indefinito, sfuggente, misterioso. Nero e blu, si badi bene, non sono solo astratti messaggeri, idee di un percorso frastagliato e disegnato secondo la materia di cui noi stessi siamo composti, quella degli incubi: nero e blu sono anche mittente e mediante, primaria fonte di ispirazione del discorso e sua profonda esplicazione. Per districarvi da un gomitolo di ragionamenti esteticamente contorti, provate a sostituire i corrispettivi sostantivati anglofoni ai termini italiani fino ad ora impiegati: ed avrete black e blue. Blue che è tonalità del cielo, dell'oceano, dell'infinito: espressione romantica e sublime del doppiofondo emozionale d'ogni uomo, incarnazione sinestetica delle sue aspirazioni e, conversamente, delle sue paure. Un colore, per questo, tipicamente psicanalitico. Chi suona blues radica la sua recondita tristezza lontano nel passato, personale a tratti, addirittura comune ed atavico il più. “The blues is an honest and emotional form of music that is thrilling to the soul. I keep coming back to it, because it feels so good”. Si sta bene, all'ombra, a brancolare nel buio, immaginando cose che non esistono e cantando ciò che non si può cantare, così come prima si filmava ciò che non si poteva descrivere, e altrettanto si fissava su tela. Lynch, come il suo quasi coetaneo Cronenberg, con serendipità persegue da decenni lo stesso obiettivo artistico, con una coerenza invidiabile e sconosciuta ai pennivendoli d'oggi. Un grande sogno, globale perché personale, da ricostruirsi giacché infranto sotto i torridi tornanti di Los Angeles.

The Big Dream” è, così, un disco blues? Lynchianamente parlando, senza dubbio. Non può essere altrimenti, d'altro canto, quando si palesa, monolite astutamente piantato nel mezzo della tracklist, la rivisitazione di “The Ballad Of Hollis Brown”, cavallo di battaglia del primo Dylan già rielaborato da Nina Simone (esecuzione magistrale, ma che ve lo dico a fare...), Nazareth e Rise Against. La biografia straziante di un uomo spinto all'atto estremo, i cui figli hanno così tanta fame da non saper nemmeno come si sorride, diventa un fosco e narcolettico tunnel downtempo (forse nemmeno Dirty Beaches riuscirebbe a fare di meglio...) nelle mani dell'artista del Montana, una spirale allucinatoria che si sorregge su sensazioni di suoni, prima ancora che su suoni veri e propri. Che pure ci sono, non si badi: il timbro peculiare di Lynch, filtrato da una cortina di fumo (e di distorsori), cozza contro arpeggi in slow motion, elementari progressioni johnsoniane, disarmonie di fondo. Un director's cut dove Hollis Brown è Diane Selwyn, oppure Fred Madison, e lo scheletro strumentale è la loro mente, rovinata, alterata.

Deepest emotions are always the darkest”: è forse questo il commento che meglio racchiude in sé il senso dell'operazione “The Big Dream”, slanciato fratellino germano dell'opimo, sorprendente ed anarchico “Crazy Clown Time” di appena un paio d'anni fa. Usavamo, a proposito, il termine “prosecuzione”. Il second act pienamente autografo di David Lynch è un oggetto non identificato che traccheggia, boccheggiando dal caldo come una vecchia cabriolet, lungo infinite (e perse) highways nel deserto: stordito eppure sobrio, austero ma visionario, essenziale e pur tuttavia mai interamente decodificabile. Facilita l'ascolto l'aver già preso coscienza (e conoscenza) dei meccanismi autarchici dell'esordio, le cui soluzioni a tratti ardite, a tratti artisticamente inaspettate, vengono qui interiorizzate, spesso semplificate. Il sussurro sacrale e ieratico di Lykke Li soppianta dunque i gemiti sensuali di Karen O in una bonus track, “I'm Waiting Here”, il cui video è summa enciclopedica del Lynch-pensiero e delle Lynch-ossessioni, e “Wishin' Well” è il trip hop vagolante tra i vicoli fantasma delle metropoli, tantrico avvicinarsi al Club Silencio. Blu elettrico, se vi ricordate, era lì l'insegna: blu, azzurrastro anzi, è l'umore che spira in “Cold Wind Blowin'”, ballata cristallizzata in un atemporale scenario dream pop screziato di psichedelia nu-gaze (lo stesso che fa capolino in “Are You Sure”, ennesima declinazione lynchiana della “Song To The Siren” buckleyana che, in “Crazy Clown Time”, si riconosceva in “She Rise Up”).

Sophomore, complessivamente, inferiore al first act: per densità, volume dei risultati raggiunti, sperimentazione messa in atto. L'elemento percussivo, che nelle sue mille iterazioni e deformazioni era stato uno dei cavalli di battaglia del capitolo precedente, qui viene passato al vaglio delle chitarre elettriche, rustiche e ruvide come mai prima (c'è del roots autenticamente stars&stripes in “Star Dream Girl”), sbertucciate entro inebetiti panzer pseudo kraut fatti di pochissimo (“Say It”) e forgiate a guisa di martelli che battono sul tono scivoloso, irregolare, artificiale del Gran Maestro (“Sun Can't Be Seen No More” è, al netto delle definizioni, un crepitante talkin' blues a variazione nulla, sorretto dalla buona mano del figlio Riley). Meglio – a tratti decisamente meglio – quando Lynch si rituffa nel proprio mondo, e non nel mondo altrui, captando i propri umori, le proprie idee. Avanza irreale, la title-track, impalpabile nella sua consistenza nebulosa, come un granchio sulla battigia: scarta di lato, evita il frontale, retrocede, di nuovo si trascina in direzione opposta, sfondando il minimalismo e desertificando, in sintetico, la musica del Delta. E niente meno che memorabile l'estasi di “The Line It Curves”, visione luminosissima e levitante tra Leadbelly e Mercury Rev cullata da larghi cumulonembi sonori.

I dischi di David Lynch non si limitano ad essere ascoltati. Si fanno anche vedere, sensorialmente. Senza varcare le soglie del cinematografo, il genio del Montana continua così a fare ciò che ha sempre fatto: annullare la quinta parete, quella dello steccato. È questo, il grande sogno. Il resto viene da sé. 

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Voto degli utenti: 5,8/10 in media su 2 voti.
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REBBY 6,5/10

C Commenti

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REBBY (ha votato 6,5 questo disco) alle 11:26 del 26 novembre 2013 ha scritto:

Trip hop blues claustrofobico e sin troppo monolitico, specie nel cantato (scritturare qualche bravo/a interprete credo gli avrebbe giovato), ma suggestivo. Cold wind blowin' e Wishin' well le mie preferite.