Andy Stott
Luxury Problems
Alza lo sguardo verso il cielo, Andy Stott, ma resta sempre verticalmente scavato nel magma il suo suono. Dopo leccellente accoppiata di Ep dello scorso anno (Passed Me By e We Stay Together), questo Luxury Problems sancisce loriginalità della sintesi su base dub-techno del producer inglese, raffinandone persino laccessibilità. Perché Stott, dopo anni di diffidenza e di prove centellinate, si è aperto in modo deciso alluso della voce, qua sempre affidata alla sua ex insegnante di piano Alison Skidmore. Come per un illusionismo, i vocals creano, infilandosi nelle textures sempre molto infossate di Stott, una specie di altra dimensione, diventando il perno impalpabile di interi pezzi, quasi (per quanto sembri assurdo) cantautorali. È questo il passaggio geniale dellultimo Stott: diventare più luminoso in superficie, mantenendo intatto il proprio nascosto risucchio nero, di città e zone industriali fatte cimiteri.
Perché la sua Manchester conta, eccome. Basta ascoltare i primi due minuti della catatonica Expecting, prima che entrino sottopelle tastiere che leggermente sollevano la visuale e alzano dai docks nebbiosi e dalle fabbriche mancuniane, con la techno che si fa quasi industrial, raccogliendo brandelli dell'hauntologia recente.
Dove il disco splende, in realtà, è nei momenti in cui la verticalità viene sfruttata in tutta la sua scala: Numb acceca nelle sovrapposizioni dei loop vocali di una Skidmore da vero eden, fino allingresso disturbante dei beat e del groviglio di bassi che crea un tappeto sinistro, come se la tuffatrice dallalto stesse per immergersi in un vortice impeciato e ctonio. È in questa sospensione, potenzialmente paradisiaca e assieme mortale, che si costruisce la magia di "Luxury Problems". In questo connubio di elementi che sembrano non esistere nemmeno, tanto smembrati sono i vocalizzi e tanto abissali sono i bassi (avvicinate bene le cuffie alle orecchie!). La tensione si ricrea in Lost And Found (apice): la Skidmore, che è anche cantante di opera, qua si arrampica in una linea quasi spiritualizzata sopra un magma di groove da rave insozzato, tutto ipercompresso. Mentre salgono incubi Demdike Stare (ma anche, dai '90s, certi Future Sound of London), i beat spariscono e poi tornano, come mostri negli horror. Brano da classico-subito.
La verità è che la tradizione viene riplasmata da Stott con un mash-up di grandissima originalità, passando dalla techno solo un poco rallentata e tinta di ambient (Sleepless) a paesaggi e scorci da post punk sperimentale: Hatch the Plan attacca noise con bleeps che feriscono come sangue che ti sgocciola dentro (già in Execution). Poi un lungo sample in loop, con un riverbero che diventa viluppo, mentre lequalizzazione sempre molto rough e improvvisi inabissamenti sotto-urbani (ecco Burial) inquinano la potenzialità paradisiaca del pezzo, che infatti alla fine degli 8 minuti abbondanti si disfà in un nuovo gorgo noise, sembra farsi travolgere da una bufera metropolitana e apocalittica, fino a essere tagliata da una turbina che gira a vuoto cigolando (presente il finale del video di Karmacoma?). Dark è dire poco. Knackered, infatti, si dice di Stott: esausto e distrutto.
Problemi di lusso, d'altronde, sono le micro-rotture con cui Stott sabota i suoi stessi brani. Come lequalizzazione ondivaga e gli stacchi sonori sballati della title-track, a volte volutamente fuori sincrono (Voices of Black?), in mezzo a un mare di bassi avvolgenti. Come la prima metà di Up The Box, paranoide corsa verso il nulla, nevrastenica fuga sfregiata dai bassi buttati sullo sfondo come unombra inesorabile, che poi sfocia, con uno stacco drum'n'bass, in una ritmica jungle in incessante distorsione. Leaving, in chiusura, è un inno purificatore, con la voce spinta da propulsioni di synth eighties, finché i cimbali accelerano allimpazzata e la voce, lasciata libera dal loop, sembra intonare una preghiera.
Che è la speranza, mentre si è in aria, di non finire schiantati. Pur sapendo che...
Tra i dischi dellanno.
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