Burial
Untrue
Per molti di noi, quella del 2007 è stata un’annata caratterizzata da un’inarrestabile e costante ascesa di quel suono specificamente urbano e britannico (per non dire londinese) conosciuto come Dubstep.
Numerosissime le uscite che hanno puntualmente saziato le aspettative di critica e pubblico (più i primi dei secondi a dire il vero…) e che hanno portato prima al riconoscimento poi al conseguente consolidamento di tale scena.
C’è da dire che raramente come nell’anno appena trascorso l’inscatolamento dentro una definizione collettiva per album ed artisti tanto eterogenei è sembrata una forzatura, a più riprese notata anche da chi ha frequentato questi lidi poco più che saltuariamente.
Per raccappezzarcisi, si potrebbe raffigurare la poliedrica ‘scena Dubstep’ come un parallelepipedo ricco di lati e spigoli, in cui ad ogni lato corrisponde un’identità diversa racchiusa nell’immenso contenitore (forzatura?) che le tiene insieme.
Da un lato il percorso a ritroso verso la drum’n’bass di dieci anni fà in dilatazione sulle sillabazioni ragga di Boxcutter e Hatcha; da un altro le visionarie uscite di Dj Distance (super-consigliato il suo ‘My Demons’) e Mrk1 che si fregiano di produzioni maggiormente pulite per ri-discernere il significato del trip-hop-Trickyano portato a conseguenze parossistiche e micidiali; da un altro il suono brulicante dai sottintesi etno firmato Skull Disco; a un altro ancora il ribollire sottocutaneo di fieri maestri come Kode9 e Skream (suo il ‘là’ al fenomeno con il manifesto ‘Request Midnight Line’); per non parlare delle fondamenta di Londra Sud , dove nessun civile si sognerebbe di mettere piede, infestate da gente come Digital Mystikz e Loefah con le loro trame melmose e minimali.
Burial si è rivelato, sin dai suoi esordi in casa Hyperdub, la gemma più rara e quindi preziosa dell’intero panorama, a partire dall’oscurità misteriosa che circonda la sua identità.
Anche se non è stato questo a colpire, quanto l’immaginario, il ritratto emotivo che con il suo esordio autointitolato del 2006 e, ancora di più, con questo Untrue, è riuscito a fotografare.
Come uno spazzino che rassetta la piazza dopo una notte di capodanno, così il nostro raccoglie e cuce tra loro brandelli ed echi del suono elettronico-generazionale britannico (e quindi di tutti noi) degli ultimi quindici anni : 2-Step, Garage, Trip-Hop, Techno, Grime, Jungle e finanche Afro Sound (alle mie orecchie…) sbiancato in candeggina; il tutto chiuso in una bolla geneticamente urban-ambient.
Insomma, la festa è finita.
L’afflato sociale di quelle musiche esaurito, l’intimità e la solitudine come necessità urgenti.
Qualcuno chiama Post-Rave questa sensazione di strapiombo sul nulla.
E mentre non si contano più le webzines i blog e le pubblicazioni di settore che eleggono Untrue disco dell’anno, il ragazzo dietro la sigla Burial preferisce restare defilato nell’ombra, in qualche angolo di Londra a ripararsi dalla pioggia battente e ad osservare la vita scorrere.
Il disco comunica disfatta, è una vera e propria cattedrale di voci gravide di soul ed emotività che si ergono su fondali di malinconia, rimandi e ricordi.
Brano dopo brano, ad occhi bassi sopraggiunge la consapevolezza, una sorta di compassione per la vita che ci circonda.
Tracce come ‘Uk’, ‘Dog Shelter’, ‘ In Mc Donalds’, ‘Endorphin’ con i loro vocals trasfigurati dall’arrendevolezza e capaci di portare su un piano verticale l’emozione, sbriciolano anche il cuore più corazzato tra la pioggia e la polvere.
Non si scambi Untrue per un album apocalittico, che pezzi come ‘Archangel’ e ‘Raver’ (quest’ultima con una delle basi techno più ‘basic’ ed efficaci sentite nel 2007) portano ad una catarsi dei pensieri, non hanno specificità descrittive o propositive.
Sembrano semplici constatazioni.
Il suono della tragedia avvenuta, dove non rimane più nessuno a raccontare ciò che era ed il tempo ora si è portato via; quindi solo macerie.
Come quelle raffigurate nel booklet interno del cd, a volerle interpretare simbolicamente.
Ho letto su una rivista che il suono ricercato da Burial è quello che rimbomba in testa dopo una notte in un locale, quindi echi, presente confuse, ‘tracce’.
È quello che si sente nei fantasmi della dance che fù nelle incertezze ritmiche di ‘Homeless’, nel siderale post-jungle di ‘Ghost Hardware’, nei Massive Attack diecimila metri sotto il livello del mare di ‘Shell Lights’.
La titletrack e ‘Near Dark’ veicolano cinismo e dissoluzione tramite frastagliati sfondi 2-Step e vocal deep-soul, prendendo sembianze gotiche e cyber con le inesorabili folate di bassi oscillanti; ‘Hetched Headplace’ distilla la lacrime algide un secondo prima di farle cadere nell’oblio della ostra epoca, delle contingenze.
Non è un disco facile, Untrue.
Non tanto per il contenuto sonoro, quanto per la capacità che ha di portare l’ascoltatore a raffrontarsi con sé stesso e con i propri pensieri, tralasciando l’istinto per ascoltare il cuore.
Per quanto mi riguarda, questa è musica Soul.
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