Darkstar
North
Nord può far venire in mente molte cose: freddo, pioggia, nebbia, praterie sconfinate, ma anche tepore domestico, beata solitudine. Certo è che per i Darkstar il nord ha significato davvero tanto: alla fine del 2009 il duo formato da James Young e Aiden Whalley, dopo aver pubblicato diversi singoli (uno su tutti: Aidy’s Girl Is A Computer), era giunto a un livello di crisi creativa davvero preoccupante; praticamente non avevano la minima idea di che strada intraprendere nel loro atteso debutto. È da questa situazione che nacque l’idea di ritirarsi nel nord nell’Inghilterra, a contatto con le loro origini, per riflettere e meditare nuove soluzioni, nuovi temi, magari traducendo le nebbiose atmosfere nordiche in partiture strumentali grigie, malinconiche. Ed è per questo che i due ingaggiano un terzo elemento, il vocalist James Buttery, mostrando chiaramente di voler cambiare il proprio suono originario, legato ad una elevata computerizzazione delle voci.
Su questo lavoro si è creato nel tempo un hype davvero gigantesco: c’è chi lo presentava come un disco rivoluzionario, che segnava una nuova era per il dubstep e per la Hyperdub. Ovviamente la curiosità era alle stelle. Ma com’è effettivamente North? Beh, se le aspettative erano quelle di vedere un disco innovativo ed originale, possiamo dire che siano state un po’ deluse, perché in effetti North altro non propone se non un electro-pop dalle tinte fosche e malinconiche, prendendo a prestito vari elementi di Radiohead, Portishead, Air, e rivedendoli solo leggermente in chiave dubstep (del quale, in effetti, non c’è quasi traccia). Se però dobbiamo giudicare il disco in base alla sua bellezza intrinseca, allora si può dire con tranquillità che North propone un pugno di canzoni davvero ben fatte.
Se Aidy’s Girl Is A Computer appare leggermente fuori dal contesto con il suo incedere robotico-digitale, gli altri nove brani propongono un’unitarietà di stili e atmosfere davvero ammaliante. A partire da quelle sfumate di Gold, cover di un brano semi-sconosciuto degli Human League, dove prende forma una delicata commistione di glitch e pop, che rimanda a certa elettronica/downtempo anni ’90. Stessa linea d’onda per Deadness, con un finale chitarristico splendidamente etereo. E se Under One Roof e North si reggono su beat quasi industrial, Two Chords presenta solo un synth nevrotico su una melodia accattivante che cresce man mano d’intensità. Modi diversi di creare un senso d’ansia e d’attesa che solo di rado esplode. Questa forse è la caratteristica del disco che più affascina, la sua capacità di entrare sottopelle, insinuandosi nei più remoti strati della coscienza, inducendo l’ascoltatore quasi in uno stato di semi-trance. Sensazione che aumenta in corrispondenza dell’intro In The Way e dell’intermezzo Ostkruez, brani con spunti vagamente kraut/ambient.
Insomma, North è principalmente un disco di atmosfera, che si lascia ascoltare volentieri in numerosi repeat. Forse la sua brevità lascia un po’ l’amaro in bocca, ma ciò non toglie che, nonostante non si possa parlare dell’inizio di una nuova era per il dubstep, North ce ne consegna una sfumatura inedita, e, comunque, bella.
Tweet