Ghostpoet
Some Say I So I Say Light
Some Say I So I Say Light ovvero: io non posso essere altro che colui che guarda. In viaggio nei rigagnoli più stagnanti della notte col Poeta Fantasma. Il flaneur invisibile, il cantore sonnambulo della metropoli silente, addormentata, dei non luoghi deserti e abbandonati, dei neon che si accendono e si spengono nei primi raggi dellalba ancora rappresi di monossido. Un andirivieni, tra i battiti sempre più veloci delle palpebre, di supermercati chiusi sprangati coi carrelli fuori,take-away aperti tutta la notte e anche oltre, stazioni della metro, lampi di semafori e luci rosse posteriori nel riflesso degli occhiali spessi, periferie londinesi spoglie e graffitate, mattoni grigi di casette basse a schiera dove un alloggio a malapena decente ti costa un occhio della testa, il terzo occhio, quello che magari avercelo. Ma ogni cosa è molle e sdrucciola come in un sogno e non fa più tanto male come fa di giorno. Lo è anche la musica. Soprattutto la musica, che di questa pellicola sensoriale si nutre e, nel buio, sillumina.
Dopo lottimo esordio del 2011, Peanut Butter & Melancholy Blues, finalista al Mercury Prize, Ghostpoet si mantiene fedele alla sua poetica più autentica e trasognata, lasciandosi trasportare sempre più lontano dai territori dellhip-hop inglese più alternativo (grime, uk garage) verso lorizzonte aperto e liquido di un post dubstep ormai mercuriale e in grado di fondersi e confondersi con qualsiasi sonorità lo attraversi: dai substrati IDM, allelettronica glitch, agli inserti strumentali (chitarre, basso, tastiere) che guardano al rock alternativo. Il rappin sempre più parlato e irregolare si fa flusso di coscienza, assorto soliloquio, si colora di inflessioni melodiche. Per la sua natura intimamente onirica e collassata potremmo definire quello di Ghostpoet un cool dubstep, come rivelano le modanature jazzy di Cold Wind, i fiati distorti e ovattati mentre scorrono i titoli di coda, gli echi elastici e rimbalzanti e la quasi assenza di progressione di Them Waters, le sfumature noir e soul di Dial Tones o il pallore quasi da camera, il climax per archi sintetici in fondo alla bella Meltdown, entrambe cesellate da un cantato femminile dolce e triste due piccole storie damore e dalienazione urbana nellinciso.
E se da una parte Msi Musmid, citazione da un film surrealista di Dalì e Man Ray, fibrilla sincopata scorie grime ultraminimaliste, dallaltra brani come Plastic Bag Train, arpeggio di chitarra in delay su break beat, introduce, rispetto al monocromatismo dellesordio, un andamento dilatato e orizzontale quasi post rock poi ripreso e amplificato dalla lunga Sloth Trot. In mezzo ci sono i riverberi di chitarra quasi lynchiana su ritmica aspersa e frammenta di Thymethymethyme, lhumming in sottofondo e il beat di tamburo afroide su base electro da suoneria anni 80 di Dorsal Morsel e momenti di apnea notturna dai quali si fa un po fatica a riemergere come nella conclusiva Comatose. Aldilà delle suggestioni più o meno personali, il musicista londinese, migliorando la cura dei suoni e il livello della produzione, ribadisce loriginalità delle sue contaminazioni e il talento nellinterpretazione di uno stile musicale narcotico, obliquo ed affascinante.
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