King Krule
6 Feet Beneath the Moon
La mia conoscenza della musica di Archy Marshall risale a inizio 2011, quando mi capitò per caso di imbattermi nel video di Out getting ribs. Allora, appena 16enne, Archy si faceva chiamare Zoo Kid. Era spiazzante vedere un ragazzino imberbe, viso scarno, con quella voce: in quei 4 minuti, ne sono ancora convinto, è condensata una delle confessioni più lancinanti degli ultimi anni. Quel misto di caos e furore adolescenziale, condito da liriche piene di sprezzo e odio (Hate runs through my blood), è ancora oggi (sebbene la versione presente in 6 feet beneath the moon disperda in parte la purezza originaria) un pugno nello stomaco di rara intensità. La lunga gestazione di questo debutto è stata nel frattempo addolcita da musica rilasciata a piccole dosi, sotto forma di singoli: prima The Noose of Jah City (b-side Octopus) e poi la clamorosa Rock bottom, a metà tra jazz, drumnbass e songwriting raffinato. Per avere invece il primo singolo apripista abbiamo dovuto attendere luscita di Easy Easy, incisiva e diretta nei suoi nemmeno tre minuti senza beat.
Chi si aspettava però un disco tutto chitarre languide, senza beat, si è sbagliato di grosso: 6 feet beneath the moon nasce in un imprecisato territorio che accoglie al suo interno varie influenze senza metterne in mostra una esplicitamente. A livello di mood siamo nellisolamento urbano che nello scorso decennio vide The Streets tra i fortunati cantori, cè insomma quel senso di vagabondaggio senza meta per i sobborghi della città, un po quello che succede nello stesso video di Easy easy, dove il nostro Krule perde tempo tra un bus e laltro, sigaretta perennemente in mano e svogliatezza cronica. E, sintomatico di ciò, lo streaming del disco è stato accompagnato da riprese del traffico di Londra in diversi momenti della giornata, quasi a catturare la poesia della vita frenetica della città. Linfluenza di The Streets, volendo, si potrebbe allargare anche ai beats jazzati (un altro nome al riguardo potrebbe essere J Dilla), ma Marshall ne fa un uso del tutto peculiare e conserva un timbro più domestico, nonché la spontaneità di un bambino che dai primi giocattoli tira fuori le cose più ingegnose. E King Krule oltre a ingegnarsi coi beats, possiede un talento staordinario quando imbraccia la chitarra. Sono svariati gli utilizzi apprezzabili nel corso del disco: languidi riverberi, schitarrate scattanti, ricami sophisti, effettistica psichedelica, distorsioni, e altro ancora.
Ma il tratto che maggiormente rende 6 feet beneath the moon un disco unico è il suo aderire perfettamente a quella che è stata la vita di Archy Marshall negli ultimi tre anni, ergendosi quasi come un diario segreto finalmente schiuso, capitolo autoconclusivo di una felicissima stagione creativa. Chi ha parlato di disco monotono o acerbo evidentemente non ne ha afferrato appieno il senso: questo è lunico debutto possibile che King Krule poteva produrre. Non è nemmeno concepito per il pubblico, ma quasi per se stesso, difatti è impossibile trovare compromessi: ciascun testo esprime in poche righe sentimenti personalissimi senza girarci troppo intorno, escludendo qualunque timore di ciò che gli altri possano pensare. In una recente intervista Archy ha dichiarato che anche se si cambia idea sul proprio operato, è sempre bene avere da qualche parte una documentazione approfondita di un certo periodo della propria vita. Creare, sperimentare, scegliere prospettive e focalizzarsi su di esse, sono queste le parole chiave che sintetizzano la sua attività nello studio di registrazione. A livello vocale, poi, è impressionante lautonomia espressiva di cui questo ragazzo è capace: quasi fosse un Joe Jackson ubriaco e paranoico trapiantato nella nostra era, King Krule persegue un ideale di songwriting graffiante, vivo, roco ma al tempo stesso elegante, nonché squisitamente british. Un flusso di parole ora sussurrate ora urlate, a ritmi alternati, come se in un momento di riflessione sorgesse a un tratto tutto limpeto incontenibile della giovinezza. E la musica riesce a starci dietro, anche un po miracolosamente.
E così eccovi questi 14 brani, né più né meno, ciascuno a suo modo necessario, perché ciascuno dice qualcosa di nuovo circa lartista che li ha prodotti. Variazioni e declinazioni differenti di unattitudine di fondo ben definita. Che si tratti del colpo secco di Easy easy, o dei passaggi arzigogolati di Has this hit?-tre canzoni in una senza per questo essere caotica-, del post-dubstep ritmicamente articolato di Foreign 2 (sentite cosa combina la chitarra in questo pezzo, trame così complicate che è praticamente impossibile sbrogliarne i fili), cè sempre limpronta di Archy Marshall, e non di James Blake, né di Flying Lotus, né di qualunque altro nome leggiate in giro. E bene dire le cose come stanno: è un disco troppo intimo, troppo personale per fare il giochino dei rimandi. Ascoltate in modo particolare gli ultimi cinque brani: sfido a trovare qualcosa di simile nel panorama odierno. The Krockadile sfodera una sezione ritmica da paura, Neptune Estate è il trip-hop più drogato degli ultimi tempi. Più meditabonda, Ocean Bed commuove in un incanto estatico. Bathed in grey è neo-noir postmoderno fatto musica: atmosfere thrilling, sangue ovunque, un bagno allucinante nella foschia della metropoli.
King Krule può migliorare? Certo. Ma 6 feet beneath the moon è il documento fondamentale e definitivo di questa prima fase della sua carriera, ed era difficile pensare a un traguardo più grande.
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