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R Recensione

6/10

Rusko

Songs

Andiamo per gradi. C’era una volta un genere considerato di nicchia, suonato solo nei club più esclusivi dai dj più talentuosi ed apprezzato solo dagli astanti più accorti, cioè quei nerd totalmente eruditi riguardo la mutevole scena undergound. Come spesso succede il suddetto genere, esposto ad eccessive accelerazioni post-moderne e ad un passaparola 2.0 internettiano, è stato esposto troppo rapidamente alle luci della ribalta cadendo vittima della marcescenza capitalista. Cominciò ad essere usato come vessillo di sensibilità artistica da chi voleva ostentare conoscenze in ambiti musicali, con la conseguente controindicazione che chi lo aveva amato finì per odiarlo, chi invece non lo capiva fu costretto ad apprezzarlo - pena l’esclusione dagli ambienti “in” - fino alla completa assuefazione. Una storia reiterata nel tempo e nello spazio con altri mille generi. La favole del brutto anatroccolo che nella mutevolezza in cigno apollineo guadagna in estetica ma perde in etica.

Adesso prendiamo il dubstep ed usiamolo come soggetto della storia. Calza alla perfezione, vero? Prima era roba per intenditori, di quella che funzionava con un passaparola vecchio stampo, fatto di sensazioni vive, ed attirava i patiti del sincretismo artistico. Poi la parola in questione fu logorata da tutte le bocche che la pronunciavano e violentata dai numerosi dj che ne abusavano. Ad oggi dubstep è la parola più usata per darsi un tono quando si produce un album. Molti attribuiscono a Sonny Moore (aka Skrillex) la colpa della disfatta, forse a causa dei suoi beat tamarri in saldo o forse per la sua faccia bislacca, portatrice sana di un estetica emo - spremuta tra Corey Feldman e Crispin Glover. Sta di fatto che tra i due estremi - tra i negazionisti traditi e i nuovi adepti - c’è una Tolkeniana terra di mezzo ove risiedono i paraculi della musica. Quelli come Rusko.

Per paraculo intendo chi cerca di calamitare nel proprio universo artistico gli aficionados della prima ora, senza rinunciare all’estetica rave moderna che porta pecunia. Ce lo ricordiamo in quel fermo immagine di O.M.G. intento ad esalare una ingente quantità di fumo. Gli occhi sgranati in direzione dell’obiettivo sembravano sottolineare la follia dell’attimo. Dopo una serie di successi, dall’attività di songwriter sino ai featuring con artisti del calibro di M.I.A. e Santigold, il nostro non è cambiato di una virgola. Sempre quell’aria strafottente da fumato, e quel talento malcelato che ogni tanto ti osserva da un anfratto del suo cervello. Songs non è un brutto album, anzi, il problema è che per restare nella terra di mezzo, bisogna essere maestri nell’amalgama degli ingredienti. Un’utopia solo a pensarlo. Rusko è un vulcano in piena eruzione, una valanga di magma che travolge la materia e sconquassa i corpi. Il suo vaniloquio sonoro cade nella diaspora caotica dell’abbondanza e non riesce a mantenere le numerose deflagrazioni sonore all’interno dell’album. Si respira aria dance beat ("Somebody to love") che ad onor del vero sa un po’ troppo di vecchio, con quegli arrangiamenti fatti dai soliti tappeti puntati di synth, anche se nella genesi prosaica c’è la chiara dimostrazione che Rusko ha talento, perché una canzone come "Thunder" rappresenta l’apice mai raggiunto dal transalpino David Guetta.

Nel suo universo acido i ponti di collegamento portano l’ascoltatore in anfratti criptici e variopinti, costituiti da inflessioni trance come su "Pressure" o nella delirante "Opium", dove il beat geometricamente sconnesso nel refrain ha l’effetto di mille viaggi lisergici. A fare da contrappeso al coacervo di orpelli danzerecci, troviamo le classiche incursioni dancehall , in cui il bizzarro mondo di Rusko si tinge di mille colori cangianti, di strane figure, di buffi individui con pupille dilatate, insomma, si abbandonano le cavalcate telluriche per dare la stura ai levare tipici - un po’ manieristici ma comunque piacevoli - di "Skanker", "Make more green" e "Be free". In sostanza troppi mondi che collidono, si attraggono, si avvinghiano e sistematicamente si rifiutano perché poco avvezzi alla convivenza tra loro. Il vero peccato è che per ogni incursione di genere, il nostro regala emozioni che troppo spesso finiscono col disperdersi nel piacere del nulla. Meno feste in spiaggia e più contenuti di concetto avrebbero addolcito l’ascolto.

Chiudiamo con un bel “il ragazzo è intelligente (molto) ma non studia (troppo).”

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