Crystal Castles
Crystal Castles (II)
Dopo quel campionario su base paranoica di 8-bit e rave-del-nuovo-millennio che era il lavoro precedente (come questo, eponimo), dai Crystal Castles ci si poteva aspettare, più o meno, qualsiasi cosa. Anche che dessero maggiore spazio, come di fatto hanno scelto di fare, agli spunti più pop e meno urticanti che facevano qua e là capolino in quell’accozzaglia di isterismo elettronico. Questo secondo “Crystal Castles” si presenta come un disco più omogeneo (oddio, non era difficile...) e levigato rispetto al primo, costruito com'è su palesi elementi di continuità – dagli urli di Alice Glass ai loop ossessivi di Ethan Kath – smussati, però, nelle loro asprezze eccessive.
Pochi pezzi portano avanti quell’espressionismo frammentato e detritico stile “Xxzxcuzx me” che aveva elevato i due di Toronto a paladini distruttivi dell’indie-violenza su base elettronica, e sono però i pezzi più in vista: il primo, “Fainting Spells”, con una Glass scomposta in lacerti manipolati e angosciosi (The Knife sempre maestri); l’ultimo, “I Am Made Of Chalk”, installazione dada che fa germinare, su una base di tastiere, samples da retrogaming e vomitature glitch al limite del delirio; e il singolo-beffa “Doe Deer”, scheggia electro-noise di un minuto e mezzo da Cottolengo puro.
Costruita la cornice di brutalità tunz-tunz-punk, però, i due ci dipingono dentro paesaggi più consolanti: il bello e il brutto di questo disco. Il bello, prima di tutto. Perché inaspettatamente dove i Crystal Castles toccano corde paradisiache invece che infernali sanno deliziare fino all’estasi pura. “Celestica”, ad esempio, è un puro visibilio techno-pop, con una Glass inedita per dolcezza, perduta in un mare di synth con effetti da arena, fino all’esaltante ricamo di tastiere neworderiane ai 3’ e ai tappeti chill-out finali. Talento a cascata. Non da meno sono il pop d’oltretomba di “Empathy”, che alterna loop claustrofobici storpiati ad aperture eteree con bassi larghi e una melodia ineffabile, e l'amalgama tra Roÿksopp uptempo e cenni stilistici french-touch di “Suffocation”. Ne esce una parte centrale di disco eccellente.
Il brutto, poi. Perché certi episodi poppettari sono insipidi (vd. le lungaggini stile Digitalism di “Intimate”), o semplicemente mal concepiti: il pastiche techno-crucco di “Year Of Silence”, tutto plasmato su un sample dagli ultimi Sigur Rós (da “Inní mér syngur vitleysingur”, precisamente), è fastidioso forte. Fossi in Jónsi mi tapperei le orecchie.
Il fatto è che ad essere meno selvaggi e ruvidi capita ai Crystal Castles quello che in passato non capitava, cioè di perdere ogni tanto qualche colpo, sicché il ritorno a sonorità sfregiate di rumore (“Baptism”, "Birds") riconforta, così come certe uscite cimiteriali che ben si intonano con la copertina. “Vietnam” è una rapsodia satanica a motore techno-dance anni novanta ben oliata (i Magic Affair chi se li ricorda?), mentre “Violent Dreams”, nonostante l’incipit quasi glo-fi-eggiante per gli ondivaghi richiami eighties delle tastiere, spreme poi un’aria gotica piena di inquietudine grazie alle incisioni di un organo horror, ed emoziona. Goth-wave-ambient, quel che è: spettacolo.
Nel complesso il “Crystal Castles” volume 2 conferma che quei cazzoni di Kath e Glass ci sanno fare, e che un posto di punta nel panorama electro-qualsiasicosa attuale lo meritano eccome. Non all’inferno, non in un cimitero, in paradiso solo a tratti. C’è qualche bel locale in purgatorio?
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