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R Recensione

9/10

Sparks

No. 1 in Heaven

Tra tante storie di trasformazioni e metamorfosi nella storia del rock, quella di “No. 1 in Heaven” è in apparenza tra le più sacrileghe: una band sospesa tra glam rock schizoide e art rock zappiano che si dà alla disco. Empietà. Eppure, a sentire l’album all’interno di quel flusso ubriacante che è la discografia degli Sparks, non si ha l’impressione di una rottura così drastica. Ciò che salta all’orecchio è come i fratelli Mael siano riusciti a cambiare paradigma musicale mantenendosi fedeli a se stessi e a influenzare l’evoluzione di un genere con un disco di sei canzoni appena. Ed è, tutto sommato, una storia banale.

Nel 1978 gli Sparks hanno alle spalle dieci anni di musica e sette dischi, uno dei quali da top delle classifiche europee (“Kimono My House”, 1974). Dopo tre album che non fanno altro che assecondare, con più o meno fortuna, la deviata audacia glam del loro capolavoro, decidono che è tempo di sfondare nella loro America, dove sono ampiamente snobbati. “Introducing Sparks” (1977) suggerisce un avviamento alla band per i neofiti statunitensi fin dal titolo, e poi nei suoi continui flirt con un folk pop imborghesito e con rilassamenti acustici à la Beach Boys, alleggerendo il sound della band e togliendole qualsiasi eccentricità barocca. Il risultato è un flop commerciale e di critica tanto in USA quanto in Europa, con un pericoloso slittamento degli Sparks in seconda fila. Occorre rilanciarsi, possibilmente in pompa magna.

Giorgio Moroder, nel 1978, è ovunque. È, fin dal ’75, dietro al clamoroso successo di Donna Summer, il cui spettacolare “Bad Girls” (con tanto di “Hot Stuff”) uscirà nello stesso anno di “No. 1 in Heaven”; è dietro i Munich Machine, con cui sperimenta un parallelo incrocio tra disco, funk ed elettronica; è dietro alla colonna sonora di “Midnight Train” (“Fuga di Mezzanotte in Italia), prima di una serie di soundtracks che lo porterà a musicare alcuni tra i film più visti del decennio (da “Top Gun” a “Scarface”). Se gli Sparks, per il rilancio, pensano a lui, non c’è da stupirsi, sebbene una distanza apparentemente abissale separi i loro due universi.

Gli Sparks, in realtà, si sono stancati delle chitarre. Proprio un bisogno di allontanamento dal loro ultimo, iper-chitarristico, “Introducing Sparks”, li convince ad avvicinare Moroder, oltre che una folgorazione acuta da “I Feel Love”. Il baffo di Ortisei accetta la richiesta del baffo di Los Angeles, e la collaborazione è avviata. I Mael sanno che Moroder ama lavorare sui pezzi degli artisti che produce; ama, insomma, mettere il naso anche in fase di scrittura. E loro sono tremendamente gelosi dei proprio pezzi. Leggenda vuole che dei primi venti brani inviatigli, solo uno venisse accettato. Alla fine non ne può che risultare un album contenuto e limatissimo: “No. 1 in Heaven”, dopo un anno di lavoro negli studi tedeschi di Moroder, esce nella primavera del 1979. Tre canzoni per lato e nessuna chitarra. Sparks get disco.

A loro modo, ovviamente. I sintetizzatori sono tutti suonati da Ron, mentre il falsetto di Russell sembra parodiare le voci black che avevano fin lì esaltato il genere (il '78 è anche l'anno di "I Will Survive"), tanto più quando viene spalleggiata da una serie di coristi stile Village People spernacchianti. Il tocco di Moroder è inconfondibile, tanto nella produzione (obiettivamente somma), quanto nei suoni, più robotici e meno funk-friendly rispetto a quelli usati con la Summer e nei Munich Machine, per quanto si faccia ancora ricorso a un batterista in carne ed ossa (il ‘fedele’ moroderiano Keith Forsey). Il disco ne esce sospeso in modo mirabile tra ’70 e ’80, tra spinte mutant disco deliranti, beat da electronic delle origini e secchi anticipi synth pop (Pet Shop Boys, Depeche Mode, Soft Cell, Human League).

L’atmosfera è celestiale ed eterea, con tastiere fumose e overdub vocali ultraterreni che rimandano a un’estetica ‘paradisiaca’ assecondata dai video di “Number One Song In Heaven” e “Beat the Clock”. I testi, sempre genialoidi e assurdi, spostano i cardini del genere, cassando i temi sentimentali in favore di argomenti che vanno dal ridicolo al parodico. “Tryouts For The Human Race”, in apertura, dà voce a (ehm) gli spermatozoi in lotta per diventare esseri umani («We just wanna be someone [...] We just want to feel the sun and be your little daughter or your son»), con i suoi synth geometrici e spaziali che precorrono mezzo pop elettronico anni ’80 e non poco di quello revival degli anni zero (Hot Chip e LCD Soundsystem, per dirne un paio, nascono qua) e con un Russell tarantolato alla voce, femmineo, teatrale, o-lo-si-ama-o-lo-si-odia come non mai.

D’altronde gli Sparks hanno, forse qui più che altrove, la peculiarità di risultare sempre immensamente imbarazzanti. Ed è quanto li rende impagabili. Ascoltare a volume pompato il ritornello di “Academy Award Performance”, disco-punk frenetica ed eccessiva su una attricetta teleguidata ma sedicente candidata agli awards, può portare a due unici esiti: o si preme subito lo stop inorriditi, o si perde qualsiasi inibizione esibendosi in un electro-pogo che cerchi di seguire i bassi spericolati e il synth durissimo. Quando nel finale Russell eleva il suo falsetto a vette folli, variando ghirigori melodrammatici da istrione sulla base ormai a fiumana, è l’apoteosi.

Tanto che è salutare l’intro molto chill-out di “La Dolce Vita”, su tastiere vaporose che accolgono la sezione ritmica, verso il minuto, come farebbe San Pietro in paradiso. Pezzo delizioso, che ha il suo apice nel giro di synth ai due minuti, e che ridicolizza le vite noiosamente sontuose dei riccastri dediti ai bagordi notturni («Life isn't much, but there's nothing else to do»), con versi fenomenali per arditezze stilistiche quasi nonsense Mira, mira, guys, there's Lira in her eyes, La Dolce Vita»). “Beat the Clock”, raccontando la vita grottesca di un ragazzo iper-prematuro e febbrile, che, seguendo i ritmi occidentali, fa tutto in modo ossessivamente veloce («Entered school when I was two / PhD'd that afternoon»), fa sua la lezione mutant disco, con call & response incalzanti e un ritornello ascendente sui synth mitraglianti come lancette (vd. anche le scale surreali del lungo intermezzo, da 1'45'').

Il finale è la definitiva salita al cielo. Spettacolo “My Other Voice”, dove un vocoder alla Kraftwerk, immerso nel balsamo di synth rapiti dagli dei e di un solo finto-drammatico esaltante, si alterna a un Russell Mael più angelicato del solito, nel rimbalzo liquido del basso. La lunga “Number One Song In Heaven”, poi, divisa in due parti, sfumata la prima, da dancefloor la seconda, con un intermezzo dada che solo gli Sparks, si autocelebra da sola («This is the number one song in heaven / Written, of course, by the mightiest hand»), prendendosi poi per il culo («The one that's the rage up here in the clouds / Lyrically weak, but the music's the thing») e finendo, com’era naturale, in gloria (il pezzo sarà rifatto nel 1997 con Jimmy Sommerville).

No. 1 in Heaven”, pur non sfondando come album nelle classifiche (ma i singoli entrano entrambi nella top 20 inglese), rilancia gli Sparks, che però non raggiungeranno mai negli album successivi degli anni '80, nonostante la collaborazione con Moroder prosegua per tutto il decennio, le vette toccate qui. Pur riconoscendo il ruolo fondamentale ricoperto dal produttore italiano in questa svolta del duo di L.A. e negli esiti di questo disco, va detto che è proprio il tocco dei Mael a fare di “No. 1” un momento centrale per gli sviluppi electro e synth-pop del decennio successivo. Sono loro a dimostrare come anche un genere così distante dai canoni rockenrolle possa essere modellato con un’attitudine sfrontata e irriverente molto più ‘rock dei chitarroni cotonati che già iniziavano a spopolare. È via demistificazione, riuso giocoso, fantaisiste, che gli Sparks riescono, così, a svoltare senza rinnegarsi, come faranno ancora, nel corso della loro carriera, almeno un altro paio di volte. E riescono a consegnare agli anni '80 un electro-pop tutt'altro che in stallo, malleabile, pronto a essere ripercorso nelle direzioni più 'arty' e imprevedibili.

Più ancora che genre-defying, come amano definire gli anglofoni album pionieristici come questo, “Kimono My House” o “Lil’ Beethoven” (la loro svolta aritmica e classicista del 2002), variamente decisivi per tratteggiare gli attributi di un genere, “No. 1 in Heaven” è un disco che fotografa un modo di fare musica appassionato, curioso, avventuroso ma sempre intriso del gusto per lo spasso e per una giocosa dissennatezza, che è il lascito più profondo dei fratelli Mael. Numero uno anche sulla terra.

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Voto degli utenti: 8,2/10 in media su 3 voti.
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REBBY 7/10
Lepo 9,5/10

C Commenti

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Dr.Paul alle 13:08 del 16 maggio 2011 ha scritto:

io sono fermo a "kimono my house" e "propaganda". bisogna avere anche questo targ? o è solo per ossessionati?

target, autore, alle 14:42 del 16 maggio 2011 ha scritto:

Direi che, dopo gli album che citi tu, questo è il più importante (e bello) della loro discografia, senonché il genere è completamente diverso da Kimono e Propaganda, e un po' di elettronica bisogna pur masticarla per poterlo apprezzare. A te, che sei ben più che un 'ciancicatore' elettronico e che non disdegni affatto certi 'teatralismi' in musica, consiglio di ascoltarlo senz'altro!

loson (ha votato 8 questo disco) alle 18:27 del 17 maggio 2011 ha scritto:

Lo attendevo, fiducioso. E' arrivato. Targhetta da 10, disco che tende all'8 ma resta sempre sconcertante e meravigliosamente imbarazzante (bravo fra). Targ, che ne pensi di "Terminal Jive"? Per me la seconda facciata è altamente genre-defying (parliamo di incroci disco/new romantic, ibrido a cui Moroder aveva già dato producendo "Life In Tokyo" dei Japan --> ).

target, autore, alle 21:42 del 17 maggio 2011 ha scritto:

"Terminal Jive" vale molto di più della sua (pessima) reputazione. A me piace, soprattutto la seconda parte (meno, invece, "When I'm with you", che pure è rimasto uno dei loro singoli di maggiore successo): "Young girls", "Noisy boys", "The greatest show on earth" sono signori pezzi! Certo, si illanguidisce e 'imborghesisce' l'hi-nrg deviata di "No. 1 in Heaven", ma è verissimo, come dici, che lo si fa aprendo nuove strade ancora. Ma insomma, degli Sparks, come del maiale, non si butta via niente: mo' ho scoperto che pure il pattume di metà anni '80 ("Pulling rabbits...", "Music that you can dance to", l'"Interior design" che mi porto nell'avatar) mi piacciono in quanto proto pattume glo-fi/hypnagogic, quindi... ) Grande Los, e grazie .

Lepo (ha votato 9,5 questo disco) alle 14:33 del 2 luglio 2014 ha scritto:

Il mio preferito degli sparks, a tutt'oggi non mi è capitato di sentire un altro esempio di synth pop tanto sfrontato e spudorato. Qui dentro ci sono intuizioni che anticipano secchi secchi gli anni '80, come giustamente scritto in recensione, ma anche l'electroclash di inizio anni '00 o il french touch. Fantastico