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R Recensione

6,5/10

Four Tet

New Energy

A new energy for dark times e la logica dell’inclusività. Kieran Hebden, figlio illustre della Londra multietnica e multiconfessionale, battezza con i crismi della sintesi artistica quella che è de facto la sua prima produzione lunga dell’era Trump. Per combattere l’oscurantismo che avanza inesorabile non basta più la cameretta della folktronica, dunque, ma nemmeno le ottundenti geometrie del Plastic People e, forse, neppure le brulicanti pulsazioni urbane di Calcutta: ciò che serve è un punto d’incontro fra tutto questo, un raccoglitore che capti le candide vibrazioni di fondo delle prime uscite solistiche e ne disciolga gli angusti confini in un rapito panismo estetico già lumeggiato nelle suite di “Morning/Evening”. Questa è la foto che racchiude tutto il senso di “New Energy”: un bedroom equipment minimale e spartano (una tastiera, una scheda audio, una loop station, due casse, il pc) che guarda il mondo esterno, si apre e si annulli in esso.

Il nono full length di Four Tet si apre soffuso, acquatico, enigmatico: i melismi di “Alap” si fanno presto largo tra apnee dubstep, introducendo magnificamente i cristallini pattern d’arpa che girano sulle ritmiche trip hop di “Two Thousand And Seventeen”. Quasi non ci si crede, ma le grandi melodie cesellate dall’arte del cut’n’paste e dalla giustapposizione di folklorismi, dopo quasi un decennio, sopravanzano nuovamente l’asset puramente percussivo: che pure, nell’ipnotica deep di “SW9 9SL”, rimane del tutto fondamentale, ma in qualche modo messo in discussione dal blocco centrale, una spirale acidula di synth che ricorda molto da vicino le progressioni di certo post rock (does anyone remember Fridge?). La forma invidiabile di Hebden è peraltro certificata dalla fenomenale prova di forza di “Scientists”, un instant classic a prova di bomba: gli Autechre persi tra suggestioni etno jazz d’altre epoche e lallazioni femminili di grande suggestione. Il percorso si sublima infine nella conclusiva “Planet” che, appoggiandosi ad un beat minimal, si inventa una forma di ibrida library postmoderna, un girotondo armonico screziato da rintocchi di vibrafono, stille d’organetto e gemiti samplizzati.

Quanto tutto questo suoni effettivamente nuovo è una domanda altra, marcatamente diversa. Si sarebbe quasi tentati di dire che, dopo quasi vent’anni, Four Tet rilegge ecumenicamente sé stesso, ma sarebbe una banalizzazione del più grande scopo sotteso a “New Energy”: l’apertura di una nuova prospettiva artistica in un mondo irrimediabilmente mutato. Certo, la chillout versione gamelan di “Lush” – o forse è gamelan versione chillout? – un po’ autoindulgente effettivamente lo è, e le primitive cellule melodiche in addendo che si riproducono sul rullante jazz di “You Are Loved” non riescono ad oscurare la più ampia sovrastruttura ambientale à la Eluvium in cui sono racchiuse (sensazione ancora più netta nell’inciso di plunderfonia chiesastica che è “Tremper”: è Matthew Cooper, non a caso, a curare il design del disco): ma ogni passo indietro (cronologico) è funzionale a farne due in avanti (qualitativi), come nella doppietta “10 Midi” (una sbilenca sinfonia da camera liofilizzata in novanta secondi) – “Memories” (nipponismi formato clubber) o negli algidi equilibri di “LA Trance”.

Verso l’infinito e oltre, allora. Non sarà più il nome del momento, ma dai dischi di Kieran Hebden c’è sempre da imparare qualcosa.

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Voto degli utenti: 6,5/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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FrancescoB (ha votato 6,5 questo disco) alle 9:51 del 25 dicembre 2017 ha scritto:

Kieran è una garanzia. Anche questo lavoro, al primo ascolto, si rivela complesso e polimorfo. Da approfondire, insomma. Condivido in pieno lo spirito della recensione.