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R Recensione

6,5/10

John Frusciante

Enclosure

Mi piacerebbe, almeno per un momento, entrare nella testa di John Frusciante e vedere quel che lui vede, sentire quel che lui sente. Assomiglierebbe maggiormente allo script di Truman Show o a quello di Nightmare In A Damaged Brain? Per la voglia di fuggire dagli schemi e di rompere con la convenzionalità si sarebbe tentati di trapiantare la faccia stralunata di Jim Carrey su quella dell’ex chitarrista dei Red Hot Chili Peppers: per i risultati che ne escono fuori, d’altro canto, Romano Scavolini si fregherebbe le mani, tutto contento. Ascoltando il tredicesimo (contando anche le due uscite a nome Ataxia) disco solista di Frusciante, “Enclosure”, che esce a due anni da “PBX Funicular Intaglio Zone” e a uno dall’EP di raccordo “Outsides”, sono parimenti due le reazioni contemplate: una smorfia di disgusto o un’espressione vacua di sorpresa – quella sorpresa eterea, beninteso, che si manifesta all’apparire dell’indescrivibile. Tertium non datur.

Taceremo, per brevità, delle prove rilasciate nella prima metà degli anni ’90. La maratona intrapresa a cavallo tra 2004 e 2005 – sei album in un anno – aveva dato i suoi risultati: una serie di lavori, in gran parte godibili, a scampoli bizzarri, ma complessivamente inquadrabili nel filone dell’indie rock registrato in bassa fedeltà – alcune cose, come “Curtains”, si sbilanciavano verso il songwriting di matrice inglese. Con “The Empyrean” (2009) si comincia a perdere contatto con la realtà: a lunghe digressioni psichedeliche, strutturalmente gilmouriane e pertanto non affrontabili nella band madre, si alternano episodi marcatamente più sperimentali, bozzetti da rifinire per brani mai realizzati. Il peso pervasivo del comparto elettronico cresce di prova in prova, complici anche i numerosi cantieri collaterali aperti dal musicista di New York: non solo i sintetizzatori e i campioni si alternano con sempre maggior frequenza alle chitarre, ma la stessa sezione ritmica si sfalda, si ibrida, si digitalizza.

Quindi arriviamo, oggi, a “Enclosure”. Persino chi conosce a memoria il corrusco e frastagliato percorso artistico di Frusciante, o chi col tempo ha imparato a vestirsi con la maschera del disincanto, rimarrebbe attonito a quello che sembra, inizialmente, un cincischiato e male assemblato pot-pourri di diverse influenze: certo rock introspettivo, lo-fi da laboratorio, assalti di cibernetica raccogliticcia, scaglie di lirismo a malapena contenute da non-contenitori anarcoidi e, sostanzialmente, indecifrabili. Lui, dal canto suo, si arrangia: scrive i pezzi, cura l’artwork, canta e suona tutti gli strumenti (in ordine: chitarra, basso, tastiere, sintetizzatori, drum machine, sequencer e samples). In certi frangenti, come nell’epifania visionaria di “Cinch” (unico, lungo assolo in stream of consciousness), sembra che la sezione ritmica sia stata curata dall’ultimo Kieran Hebden, crudo e frenetico: altrove (“Sleep”), l’oscillazione timbrica impostata à la crooner viene rimbalzata da esigui rimpolpi strumentali e da un tappeto di bizzarri beat Eighties, dando la netta impressione di essere un’improvvisazione a braccio  – provate a contare quante volte il brano cambia improvvisamente direzione; da altre parti ancora (“Excuses”), un’accozzaglia di archi sintetici viene deformata da impeti rumoristici e rintocchi metallici (laddove nella centrifuga post-industriale di “Run” il disorientamento viene massimizzato dalla breve durata).

Questo Frusciante, sebbene non dotato delle stesse capacità tecniche, ricorda da vicino Omar Rodriguez-Lopez, altro chitarrista prolifico e concettualmente geniale, ma incapace di veicolare in forme coerenti la materia straripante del suo messaggio – non è sicuramente un caso che, dopo una decade di rispettive comparsate, i due abbiano scritto un disco a quattro mani, assieme, nel 2010: il modus operandi di entrambi, a livello di scrittura ed eclettismo, è ugualmente elettrizzante e indomabile. Per cui in “Enclosure” brilla la stella del talento, ma è come se troppe spinte contemporanee, tra loro contrastanti (il synth pop da classifica di “Fanfare” contro le deformazioni orrorifiche, quasi gospel in chiave breakcore, di “Shining Desert”), ne abbiano disgregato unità ed efficacia. Per questa volta premieremo l’originalità, più che l’efficacia.

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