Ok Go
Of The Blue Colour Of The Sky
Cercavate un singolo che dicesse più di mille parole? Eccolo, bello che sfornato per voi. Ok Go, 2010, cinque anni dopo (!) lacclamatissimo - e, non giriamoci attorno, riuscito - concentrato power rock di Oh No. WTF?, ci dice il quartetto danzante. Tre lettere più necessaria interpunzione - , una verità scolpita nella pietra ed in unelettronica mercificata da bigiotteria: what the fuck? Cosè successo al gruppo che conoscevamo, di cui cantavamo i ritornelli, sulle quali coreografie low-cost, complete di giardini pensili 3x2, cariche esplosive o tapis roulant in serie, ridevamo per settimane? Dove sono le chitarre, i ganci melodici, le canzoni come Invincible o Let It Rain? Sembra, se non svanito nel nulla, di certo trasformato radicalmente. Sulla scia dei soliti nomi famosi, dopotutto, e la lista si allunga di partecipazione in partecipazione: Franz Ferdinand, Julian Casablancas, Editors. Il trionfo, a tavolino, del sintetizzatore sulla sei corde, la debacle dellanalogico. Non ci sarebbe niente di male, tantè che i sopracitati nomi, Kapranos e compagni sugli scudi, sono daltro canto riusciti a ricrearsi una credibile identità sui solchi da loro ritracciati. Qui, per il quartetto statunitense, casca invece lasino.
Complice, forse, anche una tra le produzioni più orribili e plastificate che abbia avuto mai la sfortuna di sentire, tronfia e bombastica al limite dellinsopportabile, Of The Blue Colour Of The Sky, loro terza prova in studio, è un clamoroso buco nellacqua. Da parte mia, peraltro, difficilmente preventivabile, considerata grossomodo laffinità di base fra lesordio omonimo ed il suo fortunato successore. La musica, espressione da prendersi alla lettera, volta bruscamente faccia nella stragrande maggioranza dei tredici pezzi: lindie rock, il funk ripulito, il punk à la Buzzcocks sono elementi da accantonare, su commissione di una dimensione già assaggiata nella conclusione del precedente capitolo, The House Wins, ed eutrofizzata in proporzioni pantagrueliche. Salvo un piccolo, importante particolare: quellinserto sintetico quasi wave, nelleconomia di Oh No, dava quel colore in più tanto armonico ed apprezzabile. Un lustro più tardi, è pressoché incredibile constatare come non solo la componente si sia moltiplicata quasi irrefrenabilmente, ma si sia svuotata di tutto il fascino primigenio, divenendo poco meno di un contenitore per il sottovuoto tirato a lucido.
Voglio battere sul ferro finché è caldo, tanto per mettere le cose in chiaro: WTF? è davvero inconcepibile. Una sorta di filastrocca funk robotizzata e trasformata dai vocoder. Bambinesco ed inquietante assieme. Verrebbe da pensare ad uno scherzo, se la formula non si iterasse, una stilettata in fila allaltra, anche in This Too Shall Pass, fanfara circense processata digitalmente dove la batteria rimbomba con innaturale frastuono, e in White Knuckles, una A Million Ways remixata dagli ultimissimi Architecture In Helsinki, quelli con la sciagurata fissa per i lustrini degli anni 80 (a proposito di talenti sprecati ). Il vero problema, anche e soprattutto dopo ripetuti ascolti, è che non sono crolli isolati, ma fanno parte di un movimento tellurico ben più esteso e disastroso. Non si capisce cosa intendano sottendere gli Ok Go: un cambio di personalità, un esperimento, un ex voto donato al mainstream? La risposta che, in ogni caso, accomuna le tre ipotesi si riassume sotto legida, impietosa, della bocciatura. Eccessivamente innaturali persino per le charts il synth pop sporcato di glam che dà vita a End Love è forzato lontano un miglio e per la diffusione su larga scala (magari no: I Want You So Bad I Can't Breathe è una sexy ruffianata da professionisti), i ragazzi si vanno a complicare la vita addirittura nel terreno dove, fino ad ora, non avevano mai fallito: le ballate. Poco da dire per Last Leaf, breve ma scontatissima: Back From Kathmandu alza di poco la mira, siringando un concentrato di Beatles nel classico per una volta pastiche à la Weezer, con esiti non malvagi.
È giusto, daltro canto, non incancrenirsi inutilmente sulle proprie competenze specifiche, per evitare di arrivare al quarto disco (ho puntato in alto, eh?) rifacendo il primo. Lesplorazione e lesperimento sottendono, però, per loro natura, un minimo sindacale di orientamento, di direzione, di cervello. Questa non è altro che unoccasione persa, una micidiale involuzione al bromuro, dalla quale si sottraggono solamente la mini-opera In The Glass, ambiziosi sei minuti di rock quasi orchestrale e progressivo, e Needing / Getting, new wave affatto tenebrosa con poetici disgregamenti shoegaze e posteriori digressioni acustiche sulle orme degli Sleepy Jackson, vera e convincente novità del pacchetto. Un brano stupefacente che, supportato adeguatamente, avrebbe potuto fare la gioia di chiunque, laddove sarà, invece, nientaltro che una scintilla nel buio assoluto.
Prendendo esempio dal loro lessico, its a disaster.
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