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R Recensione

5,5/10

Adebisi Shank

This Is The Third Album Of A Band Called Adebisi Shank

This is the end of a band called Adebisi Shank, annunciavano lo scorso settembre i nostri tre irlandesi preferiti, con l’inevitabile mestizia codificata nell’evento e, allo stesso tempo, con la scanzonata goliardia che da sempre li ha contraddistinti, raro esempio di math for math’s sake a rifuggire il soppalco di sovrastrutture teoriche di cui si amano circondare i musicisti più tecnici e preparati della loro generazione. Finisce così com’era cominciata: nel rumore, nel sudore, nel ghigno di un cosmico culturista cui lo sforzo fisico ha fatto detonare il lume della ragione. Didascalie for dummies, matissiane, grotteschi sberleffi a più non posso, con l’ombra di una costante metamorfosi a catturare il proscenio: dall’ep caustico all’esordio bruciante al sophomore diretto-ma-non-troppo, fino al terzo ed ultimo capitolo (“This Is The Third Album Of A Band Called Adebisi Shank”, ovviamente, come già preconizzato anni addietro) di tetsuiana, assoluta, scanzonata compenetrazione tra i martelli elettronici e le fughe strumentali, tra l’ipnosi della ripetizione e la tentazione dell’arrangiamento, tra la satura devastazione noise e l’imago party oriented. È finita la storia, ma è un peccato che i titoli di coda siano stati scritti con l’inchiostro meno ammaliante di sempre.

Si accavallano, moltiplicandosi, spingendo per affacciarsi alla mente, le impressioni. Che, tanto per gradire, gli Adebisi Shank avessero molto da dire, ma si siano limitati a farlo (bene) nei due lavori precedenti. Che questo terzo, la cui gestazione non è forse un caso sia durata quattro anni, sia stato scritto con difficoltà, per arrotondare il numero, senza grande convinzione. Che lo scioglimento del gruppo, una manciata di mesi dopo, si debba interpretare come volontà irreversibile di mettere punto a capo ad un sentiero dal quale, per partenogenesi, se ne stanno già biforcando altri (All Tvvins, Speed Of Snakes). Tra le mille illazioni, un dato certo: per la prima e unica volta, in una carriera tutto sommato breve, ma feconda di soddisfazioni, il calcolo ha prevalso sull’istinto, la pianificazione sull’ispirazione. Ne è nato, quindi, un disco artificioso nel linguaggio e negli intenti, ingessato nella prestazione, poco brillante nel risultato.

Scendendo nel dettaglio, certo, chi si sente tanto più gratificato quanto più esplicitamente lo si prende in giro accoglierà con sincera gioia la delirante “Mazel Tov”, l’esilarante singolo art pop che nessuno si aspetterebbe (chitarre plastiche ed arpeggiate, vocine distorte, un backing scenery di fiati da far gola ai classici degli anni ’80, percussioni sigillate ermeticamente): “Turnaround”, poi, l’unico ottovolante sulla faccia della terra che si permette di benedire la copula tra Vampire Weekend e Lightning Bolt, in rotazione attorno a pizzicate afro e boati elettronici da trivio; ad essere larghi di manica, anche le tastiere giocattolo e gli ovattati clangori da Fisher Price di “Thundertruth”. La maggioranza dei brani, però, oltre a non sorprendere non scalfisce, oltre a non coinvolgere non piace. Trashissima “Sensation”, nintendo-core di seconda mano giocato su un’ossessionante cassa dritta: agghiaccianti le striature bombastiche, da arena rock, di “Big Unit” (pare siano tornati in vita gli Ok Go di “Of The Blue Colour Of The Sky”); “Voodoo Vision” diluisce l’elevato coefficiente tecnico in un’altisonante sbrodolata synth rock molto più vicina ai Muse che ai Battles (un problema che affligge e tormenta anche le progressioni di “World In Harmony”, banalizzate da chiassose ritmiche drum’n’bass e appiattite su un melodismo muffito).

Al giro di boa conclusivo, probabilmente, il gioco è sfuggito di mano. Lanciamo una controproposta: l’avventura degli Adebisi Shank non necessiterebbe forse di un correttivo dell’ultimo momento, un fourth album per fare la pace col proprio passato?

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