V Video

R Recensione

6/10

Beautiful

Beautiful

Nelle mie fantasie di musicista (tutte abortite), la musica dei Beautiful è quanto di più vicino a quella che avrei suonato io: saturazione, improvvisazione, una manciata di psichedelia e venature elettroniche a riempire i vuoti. Perché alla fin fine è di questo che si tratta, di un progetto estemporaneo, suonato in presa diretta, poco pianificato e molto lasciato libero di fluire, esattamente quanto succede nella mia immaginazione dopo che imbraccio la chitarra e inserisco il jack dinanzi a un pubblico in delirio.

Scherzi a parte, è questo lo spirito con cui i Marlene Kuntz, Gianni Maroccolo e Howie B devono aver affrontato il sodalizio Beautiful, quello del piacere di scrivere, suonare e sperimentare per il sapido gusto del divertimento, scevro da pianificazioni a lungo termine o oneri di contratto. Esce per la Al-Kemi Records, etichetta del buon Maroccolo, suonato al Teatro Petrella di Longiano, Cesena, mixato in studio dal produttore scozzese, la cui mano è tangibile per tutta la durata dell’album, quasi ottanta minuti. Ne è valsa la pena? Ni, diciamo. Se da un lato la musica contenuta in questi solchi è di per sé godibile, dall’altro l’idea di un po’ di (sano) onanismo fa capolino più d’una volta. In particolare nelle spore strumentali, la tendenza è quella di una dilatazione irragionevole, fine a sé stessa, che prende nuove direzioni nel momento in cui, dopo abbondanti minuti, il pezzo puntualmente finisce. Una sorta di paradossale potrei ma non voglio che trova probabilmente la sua compiutezza nella dimensione live che ne è seguita.

Pow Pow Pow, in apertura, uno dei cinque pezzi cantati su dodici, fa molto Mofo, dal controverso Pop degli U2, prodotto proprio da Howie B sul finire dei ’90 (“Thank you for the space, my fear/feel good in this place: I’m here/Here!”: quantomeno programmatico.). Gli esercizi elettronici, scheletro del disco, restano per certi versi trascurabili e spesso strutturalmente non dissimili tra loro: dalla cadenzata Tarantino alla minimale Single Too!, fatta di pulsazioni in levare che si deframmentano nei feedback di chitarre, sino agli otto minuti di bassi lenti e trilli digitali in Giorgis: poca roba, davvero. Le stesse spore meno digitalizzate soffrono rarefazioni senza svolte, è il caso di Suzuki, lunga e monotona marcetta tenebrosa (con tanto di assortiti satanismi di sottofondo) e soprattutto di Fatiche, eco acustica lontana che si avvicina facendo presagire ciò che non sarà. Pure la torva In Your Eyes, che ricorda gli anthem corali dei Nine Inch Nails, non scava abissi né raggiunge apici, restando satura ma epidermica.

Decisamente meglio invece What’s My Name?, special guest Larry Love, dedicata ad Elvis, trapuntata di chitarre, sensualmente Waitsiana, e Gorilla, martellante controtempo di schegge impazzite che si ricompongono disegnando scenari da incubo post-atomico. Non trascendentale, ma vibrante e soddisfacente, la cover di White Rabbit dei Jefferson Airplane, intrisa di psichedelia rocciosa, mentre la palma di migliore del lotto spetta a Flowers (unico pezzo mixato da Maroccolo) quattordici mirabolanti minuti in crescendo, aperti da un’electro lieve e chiusi nel migliore dei modi in sella a un cavallo elettrico.

L’epilogo di I Can Play And I Don’t Want To assume i connotati di una sincera dichiarazione: l’elettrica in primo piano sovrasta protagonista beep e cigolii vari. La portata imperiosa dell’amore primigenio chiude come una parentesi tonda il disco, sancendone il carattere estemporaneo e sperimentale. Quello che auguriamo ai nostri per il futuro, se futuro ci sarà, è di armarsi di lame sapienti, chè quel pomodoro in copertina è solo scorza sanguigna finchè non se ne assapora, deliziati, la polpa.

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.