Caribou
Our Love
Daniel Snaith è uno che sa fiutare in che direzione tira il vento, gliene va dato atto. E anche uno dal tocco magico e leggero, quasi che, in tutte le sue trasformazioni, non abbia mai fatto fatica a plasmare a suo piacimento le intuizioni che captava nellaria e ad aggiungerci le sue, per tirar fuori roba di tutto rispetto.
Riprendiamo dalla trasformazione elettronica virata dance di "Swim". Una sequela di singoli tanto capaci di far ballare quanto pregevoli allascolto casalingo ed è il capolavoro; dallelectro-funk alla deep-house, un distillato di generi in grado di condensare buona parte dellelettronica e spingerla ancora un po oltre, grazie ad una ricercatezza in fase di produzione che, ben lontana dallessere fine a se stessa, si rivela spesso incisiva.
In questi quattro anni di sosta (almeno per quanto riguarda il moniker Caribou) la sua ampia rete ha catturato della roba interessante nelletere, pronta ad essere rielaborata.
Primo fra tutti il sodalizio ormai inestricabile fra beat elettronici e soul, sempre più in voga, con le sue teorie di vocoder e riletture digitali della materia classica, poi il ragazzo prodigio Jamie XX e i suoi campionamenti fantasiosi e il fermento tutto inglese della future garage.
Our Love (la dedica alla figlia nata recentemente) è un lavoro meno epidermico del precedente, che entra di soppiatto. Laddove gli squarci campionati di Odessa irrompevano al primo secondo, qui i beat si fanno strada più lentamente e non è solo questione di tempistica, il dancefloor si allontana anche concettualmente e nella struttura delle canzoni; i climax che il nostro è tanto bravo a creare vengono rilasciati senza esplodere, solo liberando il ritmo. Un lavoro di cesello.
Ascoltare il primo singolo rilasciato ed opener Cant Do Without You, i synth molli e fluttuanti, i beat che non raggiungono mai la ballabilità vera e propria, malgrado lo spettro sonoro diventi sempre più saturo, la voce pressata sott'acqua. Persino All I Never Need la più vicina alle atmosfere di Swim preferisce un andamento spezzato, malgrado la trascinante linea di sintetizzatore.
Non che Caribou non si tolga qualche sfizietto tamarro da dancefloor (sentire Our Love, dove la voce campionata e pitchata teorizzata da certa future garage dà inizio alla corsa verso il sottocassa, dopo la prima metà quasi trattenuta) ma le scelte estetiche ricadono per la maggior parte verso tinte più ambientali e minimali.
Migliore esperimento, in questo caso, lesoterica Mars, cinematica e tribale, condotta da un flauto sinuoso ed interrogativo. Meno riusciti il Jamie XX allacqua di rose di Julia Brightly e il passo trascinato chillwave di Dive.
Silver, invece è un elettro soul diafano, poggiato su una base ondeggiante; ancora più spinta in questa direzione è Back Home, vicinissima ad un How To Dress Well e forte della parte cantata più indovinata dellintero album, nel quale la voce, che non sia campionata, trova molto meno spazio, e di conseguenza fornisce meno appigli ad un primo ascolto, rispetto alle esperienze passate. Un tuffo nellelettro-pop con Second Chance, condito dal cantato soul dellospite Jessy Lanza; complice la vocalist femminile la mente va allesordio di questanno di Tomas Barfod. Altra ospitata allinterno del disco è quella del sodale Owen Pallett, allarrangiamento degli archi in coda a Our Love, in realtà piuttosto impalpabile come contributo.
Vengono un po meno alcune soluzioni esuberanti, a favore di una purezza algida elettronica ma la trasformazione pare ormai irreversibile, il Caribou di Andorra è un hippie dellultima ora quasi estraneo al producer di oggi, se non fosse per la delicatezza che lo ha sempre contraddistinto.
Davvero non sappiamo dove ci porterà con la prossima tappa, lunica certezza è che il 2014 elettronico passa anche da qui.
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