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R Recensione

4,5/10

Dillon

The Unknown

Il secondo capitolo per Dillon si apre con un'ansiogena ballata in cui il tempo ci tiene in forza. Ci scruta mentre i synth sono in loop. The Unknown ci stordisce. Le mani ruotano e tengono il tempo. A tempo ci muoviamo. Primo pezzo elettronico e per trovarne un altro (godetevelo) dovremo aspettare un po' di tracce.

È solo questione di tempo. A Matter of Time. Il ritmo si raffredda. Rallenta. Ma è sempre gelido, come tirato. Il tappeto luminoso su cui è seduta non riesce a nascondere il viso triste. You Cover Me è rarefatta. Intima. Lei nuda. Ricorda gli anni settanta e forse gli ottanta.

Arriviamo alla quarta traccia con pochissime novità: di nuovo suoni cupi in Forward. Il pianoforte a scandire il tempo. L'elettronica a fare da contorno. Ma ancora una volta rimane inesplosa. Rimane sospesa. Le stelle rimangono spente. Attendiamo fino alla fine. Ma il suono rimane univoco. Piatto.

In Silence: cambia la voce. Meno cupa ma sempre triste. C'è qualche sentore di soul. Forse è un contrasto voluto. Esorcizzare la paura spingendosi nel buio e andare a cercare la luce. Anche consapevoli di non poterla trovare. Anche consci del fatto di aver abbastanza forza per abbattere quel muro.

Nella traccia successiva diventa ancora più fragile, mai come nelle precedenti tracce. Forever è il pezzo. Il piano diventa solo un sostegno. Un conforto per le paure. Ma la voce trema e il piano rallenta. La voce viene trascinata mentre il suo corpo muta. La sofferenza si respira. Diventa ingombrante, pesante. Le lacrime bagnano il viso. Il volto inscena espressioni nervose. Sembrano forzate. Come quando ci sforziamo che tutto andrà bene, che si aggiusterà. Che migliorerà.

In Evergreen la voce si sdoppia. Per sentirsi meno sola? Già sentita. Ennesimo flashback all'interno del disco. Stesso discorso per Into the Deep.

In Don't Go sembra osare di più: gioca coi sinth, si susseguono e crescono. C'è anche qualche virtuosismo vocale in più. Pare rassegnata. Tenere conto delle proprie debolezze e trasformarle in forza. Lo sguardo è meno amaro. Sta facendo ciò che le piace. In quei 3 minuti e 40 sarebbe un peccato dare spazio ai pensieri.

Lightning Spanked è tormentata. L'elettronica ancora una volta è un eco lontano. Il pianoforte e le sue note diventano addirittura ingombranti. Del tutto inaspettatamente il brano diventa quasi techno. Il passaggio non pare essere immediato. Da un estremo all'altro potremmo dire. Le luci non vengono più controllate. Come i battiti del cuore.

Nowhere è l'unico episodio strumentale dell'album. E a questo ci aveva già abituati col precedente album. Parrebbe essere il più valido. Osa musicalmente. Il piano l'abbiamo messo da parte. I sintetizzatori non si contengono. Il brano diventa addirittura barocco. I suoi sussurri vengono messi in secondo piano.

Current Change racchiude quanto ascoltato nell'ultimo viaggio musicale. Prima il piano e poi i sinth. E la voce. E ancora il piano fino a far diventare il tutto rarefatto. Il tutto sembra svanire. Dillon torna nello scrigno in cui è contenuta.

Con un sorriso appena accennato ringrazia. Inchino.

Col primo disco la si era associata a Bjork. In qualche modo ritornavano alla mente i tormenti di Debut. Quest'album non convince. È il filone abbastanza ovvio di The Silence Kills addirittura con un passo indietro.

Lei rimane brava, ma non basta. Le sperimentazioni del precedente album non le ha sapute sfruttare e ci troviamo davanti ad un disco piatto, troppo monotono. Quasi noioso. Poche cose lo rendono apprezzabile. E non del tutto.

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