Franco Battiato
Joe Patti's Experimental Group
Ti sei mai chiesto quale funzione hai? chiedeva un profetico Franco Battiato nel lontano 1972. A distanza di 42 anni sembra averlo dimenticato persino lui.
Se la fama e la riconoscenza del grande pubblico sono arrivate con L'Era del Cinghiale Bianco (EMI, 1979) e soprattutto con La Voce del Padrone (EMI, 1981), il cantautore di Ionio era già noto per dei futuristici (specie in un paese passatista come il nostro) ed eccellenti dischi di stampo più tedesco che italiano.
L'elettronica stessa era appunto la protagonista principale delle prime violente incursioni musicali del primo, selvaggio, sperimentale Franco Battiato: accompagnato dal suo inseparabile compagno di avventure EMS VCS3000 (il primo synth portatile disponibile in commercio) il giovane catanese portava con uno stile molto personale in Italia un pezzo di Germania: non appariva di certo la copia-carbone di turno dei corrieri cosmici tedeschi quali Tangerine Dream, Ash Ra Tempel o Klaus Schulze.
Dal '79 il pubblico dell'artista siculo ha ben appreso da potersi attendere di tutto da lui: pop rock d'autore, opere dallo scheletro classico (ad esempio Come un Cammello in una Grondaia, EMI, 1991) e world music dall'intenso sapore sincretico (impossibile non citare in merito il sublime Caffè de la Paix, EMI, 1993) fino a una prolifera collaborazione con il filosofo e paroliere Manlio Sgalambro (di recente scomparsa) a partire dal 1995 che avrebbe dato ottimi frutti fino all'ultimo Apriti Sesamo (Universal, 2012) e che soprattutto avrebbe riportato man mano Franco Battiato sulla via dell'elettronica, che d'altronde non aveva mai abbandonato né accantonato del tutto.
Sono questi i capisaldi fondamentali da cui partire nel momento in cui ci si addentra nello sfortunato ascolto dell'ultima fatica in studio del Maestro siciliano, Joe Patti's Experimental Group. Accompagnato dal sound engineer Pinaxa, al secolo Pino Pischetola, già presente in molti full length del cantautore, Battiato promette fin da subito ciò che non avrebbe mai potuto dare: una sorta di ritorno alle origini, un album dove potersi liberare dell'avvilente formato canzone al fine di deliziare e deliziarsi con i suoi gingilli elettronici.
Fin da subito appare dunque chiaro che quello dell'artista italiano era un, sia pur audace dopo 43 anni di onorata carriera vissuta tra molti alti e pochi bassi, salto nel vuoto la cui fine sembrava già, ed in effetti era già, segnata da un giudizio irrimediabilmente negativo.
Il pessimismo di chi scrive potrebbe apparire in qualche modo prevenuto e ingiustificato ma di fatto è evidente il distacco tra il Battiato degli anni '70 e quello attuale: la sintesi tra il ragazzo imbevuto di nozioni di casa Stockhausen e l'attempato, coltissimo, metafisico cantautore appariva come impossibile sin dall'inizio.
Il prodotto è un deludente Battiato che scimmiotta Battiato; tutti i pezzi (o quasi) del platter soffrono del medesimo, fortissimo difetto: si limitano ad alternare fasi di stampo ambient/new age (cosa comunque non nuova nel repertorio del catanese) ad altre di insipida e mediocre musica di ispirazione techno, con percussioni anonime e imbarazzanti e arrangiamenti che definire amatoriali è una grossa concessione. Se questa alternanza appare funzionare in modo più o meno convincente (con le dovute riserve) in brevi intermezzi (Le voci si fanno presenze), questa tecnica compositiva rivela tutti i suoi enormi limiti e la sua vuotezza nei pezzi più lunghi, a partire dal deludente attacco della scialba Leoncavallo: partenza che a differenza del Battiato di Fetus e Pollution stavolta sembra davvero imitare mediocremente i migliori Tangerine Dream, timidi accenni di percussioni elettroniche e infine un nuovo tappeto di synth su cui Battiato decanta i suoi e suona davvero doloroso dire una cosa simile di un artista di statura così elevata mediocri versi. L'album è praticamente tutto qui: non ci sono variazioni di sorta. Più vicino a una prova generale o a una demo che a un full length compiuto, Joe Patti's Experimental Group è un episodio completamente da dimenticare nella sterminata discografia del Maestro di Ionia; talvolta emergono colpi di coda che lasciano intravedere gocce di qualità in un deludente oceano di mediocrità, come gli echi del miglior Brian Eno nella rilassante Klavier, il lirico finale di The Implicate Order o gli ultimi due episodi dell'opera (L'isola Elefante e Proprietà Proibita), che pur riproponendo la solita formula cercano di farlo con toni leggermente diversi, più accesi e, se vogliamo, originali. Ambient e techno camuffate sotto i tanto scintillanti quanto fuorvianti nomi di sperimentazione ed avanguardia (quando invece siamo di fronte alla retroguardia più pura) sono le due deludenti parole d'ordine di questo album che sa già di ammuffito dopo meno di un minuto dalla sua partenza.
Oltre all'incredibile assenza di ispirazione e creatività di questo lavoro c'è però un altro elemento che rende lo stacco con i capolavori di inizio carriera ancora più netto ed evidente: il ruolo dell'elettronica.
L'elettronica nel primo Battiato non era il fine ma era solo un mezzo, il mezzo migliore e forse l'unico mezzo possibile per raccontare memorie lontane, per ricordare che non siamo che un misto di molecole, per condannare pesanti fatti di cronaca: opera, testo, musica e arrangiamenti si fannotutt'uno e l'elettronica si sceglie praticamente da sé come linguaggio più adeguato per narrare le oniriche visioni del giovane artista.
Joe Patti's Experimental Group non ha niente da dire, niente da raccontare: è elettronica che descrive elettronica, è sperimentazione fine a sé stessa che si mostra in tutta la sua aridità, un linguaggio che parla del linguaggio non comunicando nulla; fa infatti quasi sgomento vedere come un tanto fine arrangiatore (come si può ascoltare anche nell'ultimo, onesto Apriti Sesamo, edito appena due anni fa) si sia ridotto a una misera ombra di sé: resta solo da sperare che sia soltanto un brusco scivolone e non diventi una nuova, tutto fuorché promettente, corrente nell'ultima fase della carriera di Battiato.
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