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R Recensione

6,5/10

Mogwai

Atomic

L’iconicità di certi messaggi travalica l’angusto perimetro della loro intima essenza, rendendoli universali. Pensate a quel piccone che, con l’irruenza di chi vuole cambiare per sempre la storia, demolisce un pezzo del muro di Berlino. Focalizzate Churchill, Roosevelt e Stalin seduti sugli scranni che il potere dei vincitori aveva concesso loro, a Jalta. Richiamate alla memoria i magnetici, spiritati occhi verdi di Sharbat Gula, la “ragazza afghana” di Steven McCurry. Il passo immediatamente successivo dovrebbe includere Hiroshima, Nagasaki, Bikini, Alamogordo, Novaja Zemlja… Storie sparpagliate nello spazio e nel tempo, luoghi ed insediamenti devastati in un batter d’occhio, esistenze spazzate via dal vento di morte della bomba nucleare, inghiottite da funghi abnormi, bruciate in colonne di fumo alte chilometri, sradicate da onde d’urto devastanti. È possibile non conoscerne progettazione e funzionamento: l’immagine della bomba atomica è, di per sé, puro significato, polarmente orientato.

Similarmente, se è vero che i concetti più intuitivi sono quelli più difficili da definire teoricamente, nessuno – nemmeno Simon Reynolds – è riuscito a specificare, senza ambiguità né lassismi, cosa sia il post rock e perché dovrebbe essere l’etichetta che accomuna gruppi altrimenti diversissimi come – per citare i maggiormente noti – Slint, Explosions In The Sky, Godspeed You! Black Emperor e Mogwai. Eppure, allo sfrigolare della chitarra di Stuart Braithwaite, al roboare del basso di Dominic Aitchison, al tuonare delle pelli di Martin Bulloch, non ci sono dubbi sulla giustezza e sull’opportunità di tale incasellamento. I Mogwai suonano post rock perché, in una vulgata che se ne infischia delle sfumature, sono post rock: iconici anch’essi, dunque, prima ancora di qualsiasi ragionamento a freddo. È sul filo di questa contrapposizione a duplice filo, intrigante anziché no, che un disco come “Atomic”, originariamente nato come soundtrack per il documentario di Mark Cousins Storyville: Atomic – Living in Dread and Promise (primo capitolo di una serie di speciali denominati BBC Four Goes Nuclear, curati, nel 2015, dal colosso televisivo britannico), si erge simbolicamente a summa della ventennale carriera degli scozzesi.

Quasi per compensare la dipartita del secondo chitarrista John Cummings (ma anche, e soprattutto, sulla cresta delle sempre più tentatrici pulsioni sintetiche che, in dosi via via maggiori da “Rock Action” in avanti, ne hanno meticciato lo stile), “Atomic” si riscopre, da subito, come il banchetto elettronico dei Mogwai. Ricorderete, senza fallo, le gelide articolazioni di “Remurdered”, sull’ultimo “Rave Tapes”, l’approdo ideale di una sostenuta tensione all’imbastardimento della strumentazione: di quelle conquiste si ammantano il kraut spaziale di “SCRAM” – ricoperto da una futuristica patina ambient – il cupo lamento funebre di “Pripyat” (un doom deprivato delle sei corde), lo Schulze filtrato trip hop di “U-235” (con echi e gemiti a incarnare il soul della situazione) e una “Bitterness Centrifuge” che avanza, ombrosa ed imperturbabile, in una pompa magniloquente, sontuosa, in definitiva irreale. Li troverete ancora, i Mogwai dello yin&yang, dei contrappesi strumentali e degli squarci di feedback: e vi garantisco che, quando viene tolta la sordina alle chitarre in “Ether” (a sovrastare l’essenziale, malinconico pilone melodico del corno di Robert Newth) o si viene formando l’uragano shoegaze di “Tzar”, l’impatto emozionale si conserva, intatto, quasi come se la magia di certe progressioni non potesse evaporare nella banalizzazione stereotipica che troppi hanno avuto modo di perpetrare.

Tuttavia, il divampante sole in copertina – ovvio rimando alle reazioni chimiche che, susseguendosi al suo interno, producono l’energia necessaria alla vita: la rottura degli atomi è pharmakon, in entrambi i sensi – suggerisce come una diversa fonte illumini l’operato di questi Mogwai. Il post rock fatto di cavalcate in crescendo e languidezze struggenti (quelle individuate dal violino di Luke Sutherland in “Are You A Dancer?”) può sopravvivere se, e solo se, venga organicamente sviluppata una controparte che, a parità di mezzi, vada a colmare i difetti e le lacune della compagna storica. L’impresa, tentata a più riprese nell’ultimo decennio, è ora in via di perfezionamento: per ogni passaggio a vuoto (qui “Weak Force”) c’è, qui, un episodio in grado di compensare qualsiasi cedimento (“Little Boy”).

Toccherà ammettere, non senza sollievo, che i Mogwai devono ancora sbagliare un disco: e non è certo il caso di “Atomic”.

V Voti

Voto degli utenti: 7,2/10 in media su 3 voti.
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