Nicolas Jaar
Sirens
I grandi dischi possono anche permettersi di partire in silenzio, in sordina. Immuni dal suono (vi ricordate The Dark Side of the Moon?)
E così avviene, a sorpresa, in Sirens. Poi vento, o un giradischi malandato, trambusto, formicolii orientali di tasti pigiati. Vetri ammassati, infranti, il giro radioheadiano di pianoforte, che rimanda alla fresca Daydreaming proprio della band di Oxford, la voce effettata. Ecco, Killing Time è il pezzo che Thom Yorke avrebbe voluto scrivere e non ha scritto: sè fatto anticipare. Poi, a metà brano, partono le percussioni, grandiose: sembra di guardare dozzine di bonzi, ammantati darancio, allineati, rapiti si è in Oriente, si diceva che sincronicamente battono mestoli su piatti e scodelle, recipienti concavi, ondeggiando simultanei, deambulando verso pagode mastodontiche, slanciate. È un cerimoniale, questo brano, verso la fine. Un rito. Una processione. Un funerale (We are justing wait / for the old thoughts to die, si canta). Cè qualcosa di spirituale, di forte: le esequie del tempo.
The Governor, che segue, si muove su bassi massicci (che torneranno anche nella dannata Three Sides of Nazareth, col contorno di unelettronica più spinta e un afflato blues). Poi un sax delirante, come un barrito. Cè del soul, persino, alla James Blake. In verità questo è il brano, sbilenco e tenebroso, che stavolta John Grant avrebbe voluto scrivere e non ha scritto: sè fatto anticipare, pure lui. Seguirà Leaves, un intermezzo strumentale, nel quale già compare, di sottofondo, il dialogo divertente, e in spagnolo, tra un bimbo di due o tre anni e quello che, plausibilmente, è il padre: Pongamos un poco de música y bailamos? Para hacer la película más entretenida?, chiederà luomo allinfante (e non cè bisogno di traduzione), ottenendo Ya, come risposta, da quella voce puerile: sono attimi di una tenerezza commovente, che si ripeteranno. Così parte la cumbia di No, tre accordi, con quellandazzo reggae, col testo che fa riferimento al plebiscito del 1988 grazie al quale abdicò Pinochet dopo quindici anni di dittatura (Jaar è cileno di padre). Si mescola di tutto: nella polpa, oltre che nello scheletro.
La grandezza di Nicolas Jaar ventisei anni, quasi ventisette sta proprio in questa miscela: krautrock, new wave, folktronica, techno, post-punk, ambient, dance music, stili (e idiomi) latini, una miriade di dettagli sonori, variegata eppure giusta. Così non deve meravigliare che a chiudere il cerchio, sesto e ultimo brano (ma erano stati già trentotto, i minuti precedenti), sia un rhythm and blues anni 50, il pezzo che The Platters avrebbero sempre voluto scrivere e non hanno scritto, come sempre bardati di bianco: ma qui niente anticipo (ché, poveri, son belli e andati al camposanto).
Alla fine, da tanta versatilità non si rimane che imbrigliati. E non si capisce se le sirene evocate dal titolo siano i molesti allarmi urbani o quelle marine figure femminili, immaginarie, con la coda di pesce, che allettano col canto. La verità è che si resta, allo stesso tempo, sia storditi (come da una valanga di sirene di clamorose ambulanze, zigzaganti in strada), sia ammaliati (come dai gorgheggi che, celestiali, spandono le faringi di quelle creature metà donna e metà pesce).
E Sirens è un album, si direbbe, ispirato. Non l'ispirazione che, invisibile, colpisce dall'alto il capo dell'eletto, come il frutto di un'intuizione inspiegabile ed estemporanea: queste cose non esistono. Ispirato perché ricolmo di grazia. Ecco: Nicolas Jaar è un ragazzo newyorkese, in questo momento, investito dalla grazia. E il sogno è che duri il più a lungo possibile, la grazia.
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