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R Recensione

6/10

Trey Gunn & Marco Minnemann

Modulator

Modulator” è semplicemente l'ultimo traguardo di un artista che ha saputo asservire la tecnica alla creatività, senza mai esserne sterilmente schiavo. Trey Gunn, il guru del Chapman Stick e della Warr Guitar (una sorta di chitarra “estesa” spesso suonata dal "nostro" con la tecnica del tapping a due mani), ha iniziato ad essere noto e apprezzato in tutto il mondo, entrando prima nella liveband che ha accompagnato in tour il duo David Sylvian / Robert Fripp (1992/1993) e poi nella line-up della reincarnazione dei King Crimson nel 1994 (attiva con qualche assestamento di formazione fino al 2003). Va detto che Gunn sin dal 1985 è stato uno stimato allievo della “School Of Crafty Guitarists” di Fripp. Da quel momento è stato pressoché impossibile stare dietro al suo Curriculum Vitae, tanto espanso e variegato è diventato.

Sicuramente da segnalare è la collaborazione con la "nostra" Alice (imperdibile l'album "The Third Star" del 1996) e la sua presenza nel duo Quodia (dedito a sperimentazioni a cavallo fra arte visiva e sonorizzazione ambientale spinta), nella formazione KTU (obliquo gruppo di avant-progressive, nel quale milita anche il batterista dei King Crimson, Pat Mastellotto, e nel quale ad essere protagonista è la fisarmonica di Kimmo Pohjonen: album di riferimento “Quiver” del 2009) e nel progetto TU, condiviso proprio con Mastellotto. Un suo brano-manifesto è The deception of the thrush dei King Crimson (consigliata la versione live nell’EP “Level Five” del 2001): gioire allo sfociare della sua Warr Guitar, anche dopo tanti anni di godimento, resta una esperienza celestiale.

Nonostante il suo coinvolgimento con una miriade di musicisti, Trey Gunn non ha mancato di produrre, a proprio nome, album di grandissimo pregio: il già citato "The Third Star", ma anche il superbo “The Joy Of Molybdenum” del 2000. La sua carriera solista è perfettamente sintetizzata nell'antologia ricca di estratti live "Untune The Sky" del 2003, mentre il compendio dei suoi tanti interscambi culturali è ben riassunto nella recentissima raccolta "I'll Tell What I Saw".

Vale tuttavia la pena ascoltare fino in fondo l'album oggetto di questa recensione frutto di una congiuntura fra due massimi sistemi del ritmo: il virtuoso ma principalmente geniale batterista Marco Minnemann ha realizzato una lunga sessione improvvisativa (della durata di 51 minuti, registrata in real-time), sulla quale Trey ha lavorato in differita aggiungendo il suo armamentario strumentale. È incredibilmente riuscito a dare senso e spessore a quello che rischiava di risultare semplicemente un esercizio di stile, nonostante le doti inventive di Minnemann (non siamo mica davanti ad un tracotante Portnoy, tanto per intenderci). Qui si alternano aritmie e sussultori movimenti più epidermici che tellurici: qui certe disfunzioni da prog-metal o da pseudo-fusion non sono neppure vagamente di casa. L'apporto di Trey Gunn è mirabolante: penso che ben pochi musicisti al mondo avrebbero avuto l'acutezza e l'estro per poter trasformare, suddividendolo in 22 movimenti, un unico, monolitico, assolo di batteria, rendendolo non solo fruibile ma donandogli una parvenza compositiva. Il flusso sonoro va tuttavia gustato nella sua interezza: il senso di magia permane solo se viene fruito così, tutto insieme. Lo stesso Gunn ha ammesso l’enorme difficoltà inizialmente incontrata, ribadendo però l’antico adagio che dice “da grandi restrizioni, vengono grandi salti creativi”.  Ma è pure vero che “da grandi poteri, derivano grandi responsabilità”. E Gunn di “poteri” ne ha in grande abbondanza.

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Teo 6/10

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