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R Recensione

7,5/10

Hundred Waters

The Moon Rang Like a Bell

My house is so quiet

No sound

Can you hear me?

  

Hundred Waters è un po’ come Hundertwasser. Che di nome faceva Friedensreich, e che era un notevolissimo artista austriaco, pioniere della bioarchitettura e personaggio singolare. A lui si ispirano, forse, questi americani che quasi nulla hanno di americano: c’è poco a stelle e strisce, difatti, in un disco affascinante che molto invece possiede di nordico (nell’algida atmosfera ambient), e che qualcosa possiede di orientale (il jingle finale di Innocent, le trame appuntite e cascanti delle tastiere di Out Alee e Xtalk). Questa varietà di latitudini già palesa, dunque, la ricchezza e la complessità di tanto materiale, che non si delimita e non si circoscrive, eppure sfugge al rischio di scuocersi come polpettone privo di sapore proprio e definito.

Folktronica è l’appellativo forse più vicino a questo The Moon Rang Like a Bell (molta più elettronica e molto meno folk, tuttavia, rispetto all’esordio omonimo del 2012, qui perfezionato). Le estensioni tipiche del post-rock si contaminano con Four Tet, Radiohead, Julia Holter (in Broken Blue) e molti altri, nella disperata ricerca di sperimentazione, di un suono esterno che sia formicolio, brezza, respiro, sirena. Si elude spesse volte la forma-canzone nella sua ordinaria struttura, e dei suoi tempi in quattro quarti (la chitarra è praticamente assente); si cammina a braccia aperte in spazi celestiali e tridimensionali, in altri firmamenti e altre galassie, laddove chissà la luna suonò come una campana.

Bassa nel missaggio, la voce di Nicole Miglis diventa sussurro, soave bisbiglio, serafica suggerisce, insinua. Strumentale anch’essa, accompagna, più che brillare per estensione o contenuti. Si ha la costante sensazione che questo album sia presente, sia tra noi, sia prossimo, vicino persuasivo cutaneo. E pare strano che sia così appassionante, visti i suoi cromosomi prìncipi, fuoriusciti dall’elettronica; nella magnifica Out Alee il virtuosismo della Miglis si esprime al piano (c’è Debussy al ventunesimo secolo), e sintetizza il connubio indovinato tra macchina ed epidermide.

Così settantasei secondi di una voce effettata a cappella (Show Me Love), stile gospel, aprono intensamente un LP che poi si scoprirà nuovo e camaleontico. Da segnalare i chiari rimandi, più o meno voluti, a The XX (Xtalk); l’estro dance di [Animal] che pare proiettare, inizialmente, in una scena di American Beauty; i controtempi deliziosi di Cavity; l'andirivieni cromatico e fatato di Innocent. Qualche passo falso qua e là, qualche brano fin troppo meditato (Seven White Horses, Down From The Rafters), qualche impennata che rasenta il capolavoro, come Murmurs, palpitante. O come Chambers, dove la Miglis si reincarna Bjork, solennemente, emoziona nei falsetti mischiati a bassi atavici, che sono un cuore che pulsa; pezzo filmico e sacrale, memorabile.

Hundred Waters è quindi un po’ come Hundertwasser. Nel senso che ciascuno fruisce dell’arte come meglio crede. Che ciascuno la interpreta secondo ciò che dentro prova. E di cose da provare, questo disco ne regala tante. Bisogna coglierle, e non è semplice. Che sia per orecchie troppo raffinate?

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