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R Recensione

7/10

Tunng

...And Then We Saw Land

Le canzoni dei Tunng, aldilà di quelli che possono essere i significanti, hanno dentro qualcosa di profondo e indefinibile. Un misto di nostalgia e fede. Nostalgia d’un’arcadia folk che rispecchi i cicli di un mondo più semplice e puro di questo. E fede nella speranza di riportarla in vita, proiettandola come una specie di ologramma, attraverso i bleep e i tasti scanditi dell’elettronica. Fra queste due sponde scorre, come un piccolo fiume che s’ingrossa mano a mano che scende a valle, la loro musica folktronica. Sembra che sia fatta di niente e invece c’è tutto. Suoni e sample fuori sincrono, freakerie mai supponenti (è cosa nota la loro usanza di suonare strumenti a dir poco inconsueti, come ad esempio, i gusci di alcune conchiglie), opulenza melodica ed eccellente fattura artigianale.

Il nuovo lavoro …And Then We Saw Land, prosegue a grandi linee sulla strada tracciata dal suo predecessore, Good Arrows di tre anni fa, afrori sixties, psilocybe fiabesca, minimalismo strutturale, melodie ed intrecci vocali (masculin/feminin: Becky Jacobs e Sam Genders) che prendono decisamente il sopravvento sulle varianti elettroniche, elemento più perturbante e soggiacente che significativo. Sintomatica di questo nuovo corso è la splendida Don’t Look Down Or Back: picking sub-drakeiano nella strofa, doppie voci vellutate, tastiere ipnotiche e soffuse poi break a cappella e ritornello gospel terso e commovente, e avanti così a ripetere. Un canovaccio che i nostri conoscono a memoria e sanno come variare, anche grazie ad una scrittura fantasiosa e a una perizia strumentale notevole (il terzetto di chitarre composto da Genders, Mike Lindsay e Ashley Bates, in particolare).

Così It Breaks parte sbrigliata alla “Bella e Sebastiano” e poi si sgrana mano a mano in un poemetto bandistico un po’ vintage coi fiati e il mellotron; October è un valzerino metronomico in cui suonano come dei Simon & Garfunkel unisex in bassa fedeltà, autunnale Scarborough Fair; un filone sassone e popolare esplorato e miniaturizzato anche in The Roarside, sorta di giga folktronica, e nella marinaresca These Winds, sferzante ed essenzialmente vocale. Dove la componente electro gioca ancora un ruolo di primo piano e nell’inciso fischiettante di Santiago, uno degli episodi più bizzarri, nell’intro e nel groove della palpitante Hustle e nella più articolata Weekend Away mini-suite di sette minuti, tre brani che giocano a rincorrersi all’interno di essa.

La terra, vista dal mare, non è che un’ipotesi, un’astrazione, un’isola del tutto virtuale, un miraggio concreto. Così è anche la musica dei Tunng. E il quarto lavoro del sestetto non tradisce le aspettative.

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Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 4 voti.
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C Commenti

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Gar alle 11:29 del 7 settembre 2010 ha scritto:

Bene

Ben trovati i Tunng, qui! Li ho seguiti per un po' qualche tempo fa. C'era una loro strana - a modo Tunng, dunque lontanissima dall'originale - cover di Tim Buckley:

saluti.

G