Actress
R.I.P.
In principio era Fennesz, ma la forma si è evoluta da allora: innanzitutto dall'oceano cerebrale di suoni sconnessi, la forma ha preso vita e dimensione, magari sempre distorta, ma si è imposta tempi, ritmi, suoni squadrati; ecco quindi che se "A Year In a Minute" ("Endless Summer", 2001) era il glitch formato codice astratto, "Shadow From Tartarus" ("R.I.P.", 2012) è il nuovo verbo cubista del genere ruvido ancora, intendiamoci ma sostanzioso e palpabile, techno primordiale, e con una copertina ancora una volta specchio perfetto. L'attrice, Actress, in questione è Darren Cunningham, produttore house che ha scoperto i talenti vari di Zomby, Lukid, Lone e tanti altri, e li ha posti sotto l'ala discografica della Werk Discs. Un produttore londinese che si è cimentato anche e soprattutto nella sua materia prima, impastando con house e techno di fine '80 uno dei suoi lavori precedenti più interessanti, "Splazsh", groviglio neuronale velocissimo e complesso.
Quello che ci troviamo davanti adesso, per buona parte, è invece il "R.I.P." dei beat complessi, matura (ri)scoperta delle forme essenziali, geometriche, della musica elettronica (Autechre in prima fila). Ma non solo. Una techno-ambient granulosa ("Marble Plexus") che strizza l'occhio sia alle retro-melodie di Bibio (l'indietronica avveniristica di "Ambivalence Avenue" racchiusa negli arpeggi digitali di "Uriel's Black Harp") che a quelle del recente Oneohtrix Point Never, la cui "Sleep Dealer" nel bellissimo "Replica" pare qui rivisitata dal nostro Actress in una versione più lenta, sonnecchiante, quasi passata al filtro minimalista di un Hauschka qualunque ("Jardin" e una "Serpent" costruita tra i suoi caratteristici "piani preparati" ehmmm... synth e laser futuristici); e che dire della pioggia di pixel che sembra cadere direttamente dalla cosmo-elettronica di Flying Lotus ("Holy Water") o della joyful folktronica presa in prestito da Four Tet ("Ascending")... che manierismo e mestiere non mancano, dunque, ma anche tanta materia solida per le casse e la dancefloor: la seconda e migliore parte del disco, infatti, si snoda tra glitch gracchianti ("Raven", favola a bassa fedeltà), rimbombi deep-house (le splendide "Caves of Paradise" e "The Lord's Graffiti", che sparate in successione faranno la felicità dei clubbers), ancora glitch polverosi, ma stavolta di metropoli (i synth ascensionali di "Tree Of Knowledge"), IDM gorgogliante ("IWAAD") e nostalgie retrofuturiste ("N.E.W.").
Un album che non ha punti deboli, buchi morti, ma al contrario: è un concentrato compresso di idee, di momenti di creatività straripante, di armonie geniali interrotte a metà (altri rimandi al funambolico Flying Lotus), il cui unico difetto, forse, sta proprio nell'impossibilità di riversare tutto, comodamente, in un unico disco. In principio, quindi, era un principio semplice, il glitch: l'errore per l'arte. Ora di meno: l'errore per il bello. A tante, piccole, dosi.
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