Fennesz
Endless Summer
Catturare l’errore, la falla del sistema operativo, il disguido eletto a “segno” con cui interagire in fase di composizione: la glitch music si basa su questo. Vigoroso espediente con cui celebrare il collasso dei sistemi (e delle forme), essa eleva l’imperfezione ad arte e riformula il concetto di “evento sonoro” consolidatosi in oltre un secolo di perfezionamenti nelle tecniche di registrazione. In soldoni, tutto ciò che prima veniva scongiurato e, all’occorrenza, eliminato dal processo creativo ora diventa il processo creativo stesso.
Stimolante, non c’è che dire. Eppure Christian Fennesz va oltre: non resta confinato nel gioco intellettuale ma se ne emancipa, ponendo i sofismi del glitch alla base di un’indagine musicale ove l’uomo e i suoi interrogativi restano i focus inderogabili.
Nella visione del chitarrista/laptop preformer, il software è il mezzo, non il fine (il sampler come particella dell’anima, insomma). Il suo è un felice connubio di melodia e rumore, digitale e analogico, guitar box e compressori ormai demodè (vedasi il recupero della famigliola di vecchi microfoni Simens/Telefunken, di cui il V72 resta il progenitore più illustre) ad evocare il perpetuo non appagamento del desiderio. Non passino poi inosservati il lavoro sui diversi livelli fisici e uditivi, il senso di spazialità con cui vengono trattate le fonti sonore e la loro disposizione all’interno del campo percettivo: nelle sue composizioni, queste ricerche portano ad esiti così incredibilmente musicali da lasciare basiti, muti di fronte al miracolo.
Diversamente dai precedenti – e pur magnifici – Hotel Paral.lel (Mego, 1997) e “Plus 47°…” (Touch, 1999), sull’epocale Endless Summer Fennesz sceglie d’ampliare il respiro melodico delle tracce (8 in tutto) e d’infittirne la qualità cinematografica. “Per conto mio, anche se l’ascoltatore magari non se ne rende conto, le mie influenze sono più legate ai Beach Boys e Brian Eno”, confesserà il musicista viennese durante un’intervista, incalzato dal continuo richiamo agli Oval (forse i primi grandi maghi del glitch) come pietra di paragone. Non insorgete, por favor; i riferimenti sono assolutamente pertinenti: sia le “strategie oblique” di Eno che il mood sognante ed apollineo di Brian Wilson (occhio alla cover di “Don’t Talk (Put Your Head On My Shoulder)” sull’EP “Play” del ’98) sono avvertibili fra i risvolti di questo poema di moti ondulatori e melodie rifrante nell’immagine vaporosa del ricordo.
Fin dal titolo, Endless Summer si getta a capofitto in un immaginario tipicamente estivo: il sole a baciar la fronte, le spiagge, i tramonti in riva al mare, gli amici, l’innamoramento. Istantanee di sentimento adolescenziale che in musica si trasfigurano nell’universalità “totalizzante” del linguaggio e, soprattutto, nel compattezza stilistica di materiale che trasuda classicità da ogni poro.
Immaginate il bianco mareggiare di “Through Hollow Lands” (ancora Eno) passato al setaccio e tempestato da bleep e scorie digitali, o i Labradford presi per mano e condotti fuori dal loro tunnel di oscurità e privazioni (magari per respirare – come il giovane Antoine Doinel ne “I Quattrocento Colpi” – l’azzurro dell’oceano per la prima volta), ed avrete soltanto una vaghissima idea del sound concepito dal bardo austriaco.
Sound che la Title Track distilla mirabilmente: due malinconicissimi accordi di chitarra acustica da cui sprizzano centinaia di rifrazioni luminose, poi il tintinnio di un pianoforte a controbilanciare lo sciame di frequenze sintetiche e i tricks come diapositive proiettate sullo schermo delle nostre menti “vergini”. Il risultato? Una nuova forma di glitch-shoegaze, dream-pop dissimulato fra le avanguardie elettroniche. Poesia.
Spesso gli squarci melodici restano confinati a linea-guida, sepolti sotto brandelli di skippings e bugs assortiti, con effetti ancora una volta non dissimili dalle guitar textures degli Slowdive (periodo “Souvlaki”) o dalle crisalidi electro-shoegaze dei Seefeel. Ecco quindi farsi strada nel nostro subconscio il vortice minimal di “A Year In A Minute”, lo spezzatino ambient-glitch riorganizzato per rapporti di forza (ogni cellula segue la precedente in virtù del suo timbro specifico, come se della melodia fossero isolate le costituenti e con esse ricomposto un “verso libero” di valore assoluto) di “Before I Leave” e “Made In Hong Kong”, l’intima ritmicità – ribadita dal crepitio di tastiera che irrompe in coda ad ogni “serie” – di “Got To Move On”.
Ma è anche nei momenti più (remotamente) pop che splende tutto il genio di Fennesz. Prendete “Caecilia”, dove un “vuoto” di marimba, xilofoni e poltergeist elettroacustici prepara il terreno (siamo circa a 2:06) per una dolcissima giostra immaginaria alla “God Only Knows” (Beach Boys), fine carillon da abbaglio della memoria. Oppure “Shisheido”, che pugnala al cuore con una song ridotta all’osso in cui i suoni – tutti generati dalla chitarra e riplasmati col software – sembrano filtrati attraverso diverse camere d’eco e riverbero: alcuni sporcati e deliberatamente lo-fi, altri preservati in tutta la loro cristallina purezza.
Il culmine di quest’arte di “distorsione della percezione” si trova però negli undici minuti di“Happy Audio”, allorché un loop generatore, pulsante ad anni luce da noi e di cui non avvertiamo che un riflesso ovattato, guida un inarrestabile crescendo di frammenti, simile ad un “rumore armonico” che si gonfia fino ad avvolgere il cosmo e resettare la realtà al grado zero dell’esperienza sensibile. L’unica reazione possibile sono le lacrime. Di gioia, però.
Mi si guarderà con pietà, lo so, ma mi piace pensare che il “senso” dei momenti più delicati ed eterei di Ennio Morricone (ad esempio “C’era una Volta il West” o “Nuovo Cinema Paradiso”, entrambe così sperdute nel passato, nel rimpianto per un epos collettivo a cui siamo stati strappati con la forza) riviva, in un paradosso d’indicibile bellezza, nell’epicità della contemplazione elettronica di Fennesz, in quel modo tutto suo di coniugare gestualità minimale, solennità dello sguardo e desiderio d’innocenza.
Sono infatti lo stupore del fanciullo, il sentire la vita che si appropria di te e, assieme, la nostalgia di tutto questo (ovvero l’innata capacità della musica di donarti il “nuovo” e, al contempo, di comunicartene la “mancanza”) ad essere evocati da questo Mozart del glitch che ripone un briciolo di pop nel suo cuore e lo scarnifica con una delicatezza ancora inesplorata.
Per chi scrive, “Endless Summer” resta il disco più bello ed importante di questo decennio (almeno fino ad ora, poi chissà…). Un’opera da vivere senza restrizioni e a cui abbandonarsi con cieco fervore. Concedetegli ripetuti ascolti: potreste innamorarvene perdutamente. Dovreste, anzi.
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