Memory Tapes
Seek Magic
Reimmaginatevi il futuro. Quel futuro. Quello che oggi è passato. Ripensatevelo come cornucopia generosa dalla quale traboccano frutta fresca, panna montata, gocce d’arcobaleno e… un fiore appassito. Segno plausibile di una dominazione gagliarda, finanche estesa a tutto un decennio: gli ‘80s di pubblico ludibrio, “minestronizzati” con effetto memorabilia, imbacuccati di ghirlande e bolle di sapone. Ora avvicinatevi all’oggetto, esaminatelo di lato, studiatene la rugosità di conchiglia zuccherina. Scoprirete che ha un proprietario: “In caso di smarrimento, citofonare ai New Order”. Eureka!
- Di un “sottogenere” di cui tanto si parla, e di cui è bello (s)parlare…
Specchio d’acqua in una “waterworld” immaginaria, la memoria necessita l’imprinting. Il controverso glo-fi (o dream-beat o Suor Genoveffa o…) altro non è che un suggerire la possibilità di un ricordo “alternativo”, invadendo del privato (la registrazione su mangianastri, qualità da bedroom tapes) il pubblico dominio, conferendo a quello sacralità. Concetto non nuovo, chiaramente, ma che genera riflessioni piuttosto divertenti qualora venga applicato a materiali, quali synth-pop e italo-disco, generalmente indicati come trionfo di high fidelity.
Ecco, in primis, verificarsi un curioso cortocircuito temporale: se agli albori dell’indie-pop erano gli anni ’60 ad aggiudicarsi la palma di “età dell’innocenza”, nelle pubblicazioni glo-fi è proprio il lato più egemonicamente eighties a (ri)scoprirsi portatore di una purezza perduta. In entrambi i casi, il suono di un’era viene riletto secondo i dettami deformanti della rimembranza e della bassa fedeltà (la shit-music che a volte capita…), con l’intento di estirparlo dal suo contesto “collettivo” e calarlo in una realtà altra, squisitamente intima, intimamente visionaria. Non a caso, gruppi come Delorean, Neon Indian, Small Black, Vega e Washed Out usano synth analogici sulla scia del Prophet 08, campionatori vintage come E-Mu Emax, Akai MPC-60, Ensoniq Mirage, unità di riverbero anch’esse “sorpassate”, compressori analogici. Spesso il sampling si effettua una frequenza più bassa del normale, come avveniva agli albori del cut’n’paste, in modo da ottenere suoni sfilacciati, gracchianti, e tutto questo per acuire il senso di lontananza dalla fonte (e quindi confondere i piani percettivi), ma anche per suggerirne il povero, immacolato candore.
Candore che si mescola al gioco, alla visualità di una low fidelity graficamente ineccepibile poiché consapevolmente approssimativa. Le copertine e i video delle band – perlopiù americane – tirate in ballo sono quanto mai rivelatori: pop-art come la immaginerebbero dei neonati, tinte fosforescenti a piovere, scarabocchi minchioni promossi a gesto “dada” e “optical art” degenerata in monnezza nerd. La cover di “Psychic Chasms” dei Neon Indian, tanto per citare il caso più ovvio, si crogiola in quello che, a prima vista, pare una specie di “raggismo” naif, ed è manufatto imprescindibile per avvicinarsi a un disco che “comprime” il sentimento adolescenziale dei Daft Punk, fino a ridurlo a pura celebrazione della preistoria del Nintendo; ma in campo glo-fi sono gettonatissimi anche collage con ritagli di giornale, istantanee da album fotografico di famiglia (lo scatto balneare in copertina all’EP “Life Of Leisure” dei Washed Out) e, più in generale, qualsiasi materiale sia in tinta con la scanzonata nostalgia promossa a leit motiv della “banda”. Nel video di “Lover” dei Nite Jewel, ad esempio, la singer Ramona Gonzales si dilunga in pose patinate, con tanto di lunghi capelli smossi dal vento, ralenti e lenzuola di seta; a livello tematico, quanto appena descritto parrebbe non c’entrare nulla col nostro ambito d’indagine, eppure anche qui la povertà del set e l’illuminazione approssimativa (notare il macroscopico e insistente effetto rainbow) fanno più pensare a una parodia, o al capriccio di una teenager che voglia imitare le popstar degli anni ’70 e ‘80.
Venendo all'approccio, il glo-fi si fa carico di aggiornare alla multimedialità autoironica da Terzo Millennio l'etica rinunciataria e/o nostalgica di Smiths o Field Mice: campo di battaglia deserto (ma coloratissimo) dove l'unica consolazione resta l'intensità emotiva del "già stato, anche se forse non vissuto", l'inventarsi (o il ricostruirsi) un passato (o una verginità). Ieri come oggi, la voglia è quella di “stoppare” l’educazione sentimentale ancora in corso e regredire all’infanzia o alla primissima adolescenza. Allora come adesso, il motivo può forse ricondursi a un senso di smarrimento di fronte al presente, disagio riflesso nel divario di mercato esistente fra un mainstream sempre più mainstream e sottoculture giovanili via via più isolate e “isolanti”.
Ora due notizie, una buona e una cattiva. La cattiva è che l’infingardo divario di cui sopra si è ormai fatto incolmabile, e non sarà certo quest’ode al “Dio Nastro Smagnetizzato” a ribaltare la situazione; la buona è che di ribaltare la situazione non ci frega un’acca, dato che l’irrompere del “nuovo” (e il glo-fi, nel suo piccolissimo, lo è) può benissimo non far rumore, né intaccare la struttura della realtà, ma anzi accentuarne la marmoricità delle fondamenta. Non so, forse tra qualche anno a ripensare al carrozzone (ma sarebbe meglio parlare di carrozzina) “glo-fi” ci si farà una grassa risata. Intanto vale la pena continuare a parlarne, provare a capire. E, sopra ogni altra cosa, ascoltare.
- Di un disco che lascia senza parole…
Giudicando sulla base dell’album d’esordio, Dayve Hawk (mente dell’operazione Memory Tapes, ma anche di Memory Cassette e Weird Tapes) sembra proprio essere il vero genio trasversale del cosiddetto pop ipnagogico: il suo Monet, come la splendida copertina lascia intendere; il suo Brian Wilson o il suo Curt Boettcher, come si evince dalla complessità del contenuto. Tutto, in verità, era chiaro fin da “Bycicle”, singolo rivelazione dell’estate 2009: fantasia policromatica disco-infected, dapprima ombreggiata da arcate sinistre, poi vagamente balearic stile tramonto sulla spiaggia, infine rischiarata da cori festosi e chitarra secca, piangente, alla Bernard Sumner. L’unica cosa che lasciava perplessi, considerati i canoni estetici “glo-fi” enunciati da David Keenan su The Wire, era la sua relativa pulizia. Apposta si è parlato di “trasversalità”, dato che Memory Tapes rinuncia, almeno in parte, a uno degli elementi chiave del glo-fi: la sporcizia. Sì, perché la bassa fedeltà qui non è poi così bassa, anzi: giusto una patina di polvere, ma che tutto avvolge, ammalia, anestetizza. Il suono, poi, non pare eccessivamente deformato, e manca il gusto perverso dello sbrodolamento (pratica comune nella casistica comportamentale di cui ci stiamo occupando); piuttosto le voci, quelle sì risultano dolcemente abrasive, filtrate, alte e angeliche.
Nonostante (o forse proprio per) questo precario equilibrio stilistico, “Seek Magic” suona come una delle cose più originali ed eccitanti ascoltate quest’anno. Per complessità e ingegno musicale potrebbe, anzi, candidarsi a “Pet Sounds” della “hypnagogic generation” (!): otto pezzi, di cui ciascuno pare una “sinfonia tascabile” di beat stratificati, tastiere “neworderiane”, invenzioni melodiche che da sole potrebbero riempire due-tre dischi, sampledelia da rigattiere. Magia, in fondo. Quella che in “Swimming Field” guida l’arpeggio e appanna la vista, in un “sogno lucido” – per dirla alla Aphex Twin – di voci androgine sommerse dalla marea; o che nello strumentale “Pink Stories” mette faccia a faccia il Brian Eno della “Musica per Aeroporti” e Rob Hubbard, baffuto papà delle soundtrack da videogame, sovrano incontrastato dell’elettronica 8-bit.
A sconvolgere, di “Seek Magic”, sono poi la stratificazione del sound, la solida concezione polifonica, la caterva di frammenti melodici che si danno battaglia secondo una logica quasi contrappuntistica. Attorno al tema principale, infatti, si dispongono a raggiera oasi melodiche sempre diverse, sempre nuove; l’effetto è sollazzante anzichenò. Sembra quasi che Hawk, da vero maestro nell’arte della “variazione”, s’inventi un pezzo nuovo ogni due minuti, intersecando temi su temi senza soluzione di continuità (come nella stupefacente “Green Knight”), dando a ogni secondo una forza dirompente. Per non parlare dei suoni di keyboard qui proposti, fra i più variegati che abbia ascoltato in vita mia: un’inusitata concentrazione di timbriche, dalla più raggrinzita (si ascolti il simil-feedback nell’ultimo minuto di “Graphics”) alla più luccicante (quello che accade nei precedenti cinque minuti di “Graphics”); una giostra di colori che passa dall’acquamarina a un arancione fiamma, dal chartreuse al fucsia ostinato (il congedo “Run Out”). E infine – ma chi ha letto fin qui ha già capito – ci stanno canzoni letteralmente devastanti. Oltre a quelle appena citate e alla “Bycicle” di cui si è parlato qualche paragrafo addietro, restano da vagliare una “Plain Material” che batte i Cut Copy al loro stesso gioco, e i sette minuti di “Stop Talking”, durante i quali par d’ascoltare dei Pet Shop Boys dalla lacrima facile che cantano su una base italo-disco assemblata in Paradiso. Estasi.
In conclusione, se i pur bravi Neon Indian hanno messo in mostra vizi e virtù del pop ipnagogico, i Memory Tapes si sono limitati alle virtù, avendo sfornando un disco che, da solo, giustifica tutto l’hype orchestrato attorno al fenomeno. Dritto nella Top Five del 2009, per quanto mi riguarda.
Myspace: http://www.myspace.com/memorytapes
Video: "Bycicle" http://www.youtube.com/watch?v=0EgbtNMcdwM&feature=PlayList&p=F05B20D599363663&playnext=1&playnext_from=PL&index=19
"Swimming Field" http://www.youtube.com/watch?v=yXukkABq9RI&feature=related
"Stop Talking" http://www.youtube.com/watch?v=7Lv77waIQLY&feature=related
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