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R Recensione

7/10

Small Black

Small Black

Degli Small Black se ne era già parlato nel nostro approfondimento sul movimento glo-fi (entrato come chillwave su wikipedia, ossia la Fonte della Verità: qualcuno vada a modificare la voce, perché glo-fi è etichetta assai più azzeccata), e se ne era parlato molto bene, proprio sulla base di questo Ep che porta il loro nome. Ne riparliamo ora perché la Jagjaguwar, subodorando il talento e magari anche il danè, vista la spinta pitchforkiana di cui gli Small Black hanno goduto fin da subito (e pour cause, dal momento che un loro membro ha collaborato con la webzine americana), ripubblica quell’Ep con l’aggiunta di due tracce per sette brani totali.

 

Sporca e psichedelica, la prospettiva di questi brooklyniani, mentre prende le distanze dalle basi italo-disco degli altri glo-fi-ers, si getta di pancia verso un pop sognante lasciato a friggere su risoluzioni bassissime e zozzure a iosa. Josh Kolenik e Ryan Heyner – le teste pensanti della band – scattano foto a pixel giganti, e ciononostante colpiscono dritti alla testa con melodie killer affidate a una voce filtrata e distante. La lezione di Bradford Cox (Atlas Sound + Deerhunter) si sente sin dalla ruvidezza melodica di “Despicable Dogs”, guidata da una drum machine battente ma non sovresposta, attorno alla quale si affastellano effetti rugginosi e deliziosi ghiribizzi vocali. La bassa fedeltà è spinta agli estremi, ma senza il sostegno vintage di basi smaccatamente 80s, come nel notevole remix dell’amico Washed Out.

Il resto dell’Ep, invece di calare rispetto al brano di punta, raggiunge standard persino più alti. È la qualità compositiva, oltre alla varietà delle soluzioni adottate, a colpire: “Weird Machines”, con i beat che scandiscono un ritmo appesantito, a dribblare un guazzabuglio di riff gracchianti e scuri (Zola Jesus che rifà i Pixies di “Where Is My Mind”?), ha un effetto talmente stordente da convincere l’impasticcato a mettere l’ecstasy da parte, mentre “Bad Lover” si distende in campate sognanti di grana grossa che incantano a furia di brusii e cori psichedelici.

Tutto, negli Small Black, è giocato nell’attrito tra disturbi noisy e melodia, rumore volutamente fastidioso e easyness pop. I filtri sfrigolanti si applicano qua ad echi edulcorati dell’esperienza Morr Music (“Pleasant Experience”), là a un mosso dream-pop di gusto giocattoloso, come in “Lady In The Wires”, spinta da un gustoso basso balzellante. I due pezzi nuovi sono l’ultra-indie-pop leggero e caracollante di “Kings Of Animals”, che prosegue la via più briosa, e la semi-strumentale “Baby Bird Pt. 2”, con tanto di armonica a pilotarla per una buona metà verso esiti stranamente bucolici.

Tratteggi sempre più colorati e meno nostalgici, questi ultimi, che suggeriscono per gli Small Black una traiettoria meno prevedibile e perciò ancor più interessante rispetto a quanto si potesse pensare dalla prima manciata di brani. Lo ripeto? Teneteli d’occhio.

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Filippo Maradei alle 0:38 del 12 maggio 2010 ha scritto:

Uhmmm, però (!): mi tornano alla mente i Dolorean di Subiza, così sognanti, brillanti, dai colori accesi, spumeggianti. Ottima anche la recensione Francesco, li terrò d'occhio senza ombra di dubbio

Alessandro Pascale (ha votato 7 questo disco) alle 19:26 del 10 giugno 2010 ha scritto:

molto indie pop e molto carini. Aspettiamo l'lp, nel frattempo ci sta il voto del target