Josh Wink
When A Banana Was Just A Banana
Ah, quando le banane erano soltanto banane… Ossia prima che Warhol eleggesse "l'unico frutto dell’amor” a icona pop di seducente alterità nella copertina del disco “di chi sappiamo noi”, qui esplicitamente richiamato dalla cover. Peel slowly and see…nothing at all! Un comeback all’innocenza, quindi, all’immediatezza degli oggetti. La perfetta, agognata (e illusoria) coincidenza fra realtà e rappresentazione, in barba al Magritte di “Ceci n’est pas une pipe” e agli altri (geniali) tromboni surrealisti. Ma il procedere a ritroso qui non si ferma allo stadio della referenzialità semantica, preannunciando invece la riscoperta di una musica e di un credo. “When A Banana Was Just A Banana” (Ovum, 2009) è l’acid house che risorge, fenice “chimica”, nella terra minimal techno chiamata “kraftwerklandia”, dove un “Mago di Oz” ex portatore sano di dreadlocks – Josh Wink, appunto – manovra i cursori di un cuore meccanico, ecocompatibile, pulsante energia al 100% rinnovabile. Roba “che spacca”, giocata fra bassi Roland TB 303 a palla (la scuola americana e quella inglese messe a confronto: Armando e 808 State, Dj Pierre e LFO, Bam Bam e Baby Ford), ritmiche affilate come accette, vulcanici minimalismi di superficie, rari appigli melodici. Su tutto, la “teoria dell’errore” che tanta fortuna ha portato ai musicisti popular degli ultimi novant’anni: “In studio capita di premere il pulsante sbagliato, o di togliere senza volerlo un canale o mettere le impostazioni errate in un delay, e il risultato spesso oltre a essere ‘sbagliato’ suona molto strano. Beh, qualche volta alla fine diventa ‘giusto’”.
Meglio focalizzato del precedente “Herehear” (’98), e se possibile ancor più intenso di 12’’ strabilianti come “Don’t Laugh”, “Higher State Of Consciousness”, “Hypnotizin’” o “Thoughs Of A Tranced Love” (gioielli sparsi su diverse etichette dal ’93 al ’96): “When A Banana Was Just A Banana” è lo “stato dell’arte” di un’arte troppo personale per perdersi nell’anonimato. Non che Wink s’inventi di sana pianta un nuovo genere, intendiamoci: i modelli sono quelli “classici”, facilmente individuabili, ma è il modo in cui egli li “rivolta” a fare la differenza, al pari del suo talento nel trafficare coi campioni (i balbettii di “What Used To Be Called Used To Be”), nel complicare l’andamento dei brani inserendo bleeps, frammenti di piatti e altri strumenti a percussione (“Minimum 23” e il suo breakbeat incrociato dal gusto jazz), interferenze, vuoti (a rendere), voci compresse che sbucano quando meno te l’aspetti, tagli di frequenza, rarefazioni improvvise.
Una house tutt’altro che “liscia”, bensì frastagliata, “scartavetrata”, dalle mille rugosità. Una house istrice incazzoso i cui aculei assumono le conformazioni uditive più insalubri, come nella grandiosa “Airplane Electronique” che sbuffa fumo e gira cieca su se stessa, o in una “Counter Clock 319” dove il basso sembra raspare il suolo, stiracchiarsi come una molla tesa al massimo, gorgogliare come bulbo catarroso di un settantenne malato d’enfisema. Una house che “monta” da subwoofer slabbrati, gravida di deliri percussivi a go-go (“Everybody To The Sun” e “Hypnoslave”, brani che “avantgardizzano” l’acid-house nello stesso modo in cui Maurizio aveva rigenerato il corpo techno all’alba delle produzioni Basic Channel). A chi poi avesse dubbi circa la versatilità del musicista di Filadelfia, consiglio di farsi un giretto sulle sofficità melodiche di “Jus’ Right”, o godersi la benedizione “detroitiana” di “Dolphin Smack”: gocciolano sulla testa come pioggia primaverile, ti "elevano" fino a illuderti di svolazzare, leggiadro, fra colline di cartapesta e laghetti di cellophane.
E lo studio di registrazione si fa protagonista (come in ogni produzione “electronica” che si rispetti), vivo e percepibile: si sentono le manopole dei synth, i cursori del mixer, si avverte la straripante fisicità del lavoro e assieme la lucidità nella ricontestualizzazione del materiale. E soprattutto trionfa la maestria dell’autore, il suo tecnicismo mai fine a se stesso, il suo amore per la storia, espresso fin dai primissimi anni ’90, assieme a King Britt, sotto lo pseudonimo E-Culture. Di tutto questo “vissuto”, “When A Banana Was Just A Banana” è il miglior compendio possibile: nove tracce di cui nessuna men che indispensabile (mica poco per un’epoca - la nostra - in cui il concetto di “riempitivo” ha riacquistato nuovo vigore e lucentezza); se poi si considera che l’ultima è quella “Stay Out All Night” che l’estate scorsa ha scandito l’euforia di ogni tragitto automobilistico “casa-club”, allora c’è solo da “star zitti e ballare”, signori miei.
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