Gotye
Making Mirrors
C'è un po' di Beck. I virtuosismi di Thom Yorke. Qualche suono rimanda anche a Sting e i suoi Police. Gotye, al secolo Wouter Wally De Backer, viene collocato tra gli artisti indie. In realtà la sua musica spazia tra svariati generi mostrando una più che evidente versatilità nel comporre e nello scrivere. C'è sempre più la tendenza a fare musica guardando al passato: sono evidenti le conseguenze dovute al rilancio della musica black e soul, con un occhio di riguardo agli anni '60 (Lana Del Ray, Amy Winehouse). Potremmo dunque definire Gotye come un musicista che si rifà al passato, ma con grande importanza al futuro.
Il disco Making Mirrors racchiude – se non la genialità – sicuramente l'elevata creatività che oggi sembra essere sempre più rara. Ci son diversi spunti positivi nell'album: si passa dal rock al soul, ma c'è anche spazio per un ben confezionato pop e qualche sprazzo di psych-folk. È composto da punte davvero molto buone, per poi scendere in pezzi che hanno proprio l'aria di essere un riempitivo. Alcune delle dodici traccie di Making Mirrors non convincono quasi per nulla, in certi punti sembrano addirittura forzate.
Una delle punte alte del disco è sicuramente il singolo "Somebody That I Used To Know". Pochi strumenti – tra cui un mini xilofono – che anticipano un pezzo minimale ma di impatto. Qui la voce di Gotye si ben amalgama con quella di Kimbra. Sonorità interessanti le troviamo anche in Easy Way Out. Suoni elettronici e l'ingombrante chitarra elettrica che regala al brano atmosfere beatlesiane. "Eyes Wide Open" cita i Coldplay, scegliendo sonorità classiche: bella, ma decisamente anonima confrontandola con gli altri pezzi del disco.
Dai ritmi tribali di "Smoke and Mirrors" alla psichedelica "I Fell Better" che suona irrimediabilmente sixty. La nona traccia "Don't Worry, We'll Be Watching You" ha un sound cupo. La matrice è hip hop. Bella anche la traccia numero dieci: "Giving Me a Change" è forse la più interessante dell'intero disco. La voce è pulita, lineare. È minimale come gli strumenti utilizzati all'interno della canzone. Save Me segue lo stesso filone. Brano pop che non toglie e non aggiunge nulla. Nella conclusiva Bronte si torna a sperimentare e si torna anche alle sonorità cupe. Si entra nel brano in punta di piedi, così come i tasti del pianoforte che incantano.
Making Mirrors non è propriamente pop dunque. Come anticipato all'inizio ci sono alcune punte ostiche ma facilmente ascoltabili. È sicuramente più immediato del precedente Drawing Like Bloods, forse più introspettivo e pensato.
I brani migliori sono quelli più “classici” e che comunque seguono un filone pop meno 'arty'. Quelli in cui il cantante australiano “osa” leggermente di più sembrano essere un po' troppo pretenziosi e mal addizionati: vengono presi in prestito arrangiamenti da svariate parti (dai tamburi tribali, ai synth anni '80), ma i pezzi più convincenti rimangono pur sempre quelli più classici e immediati. In quelli più studiati il rischio è quello di risultare quasi goffo. Rimane pur comunque un più che buono esperimento.
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