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6/10

Teletextile

Glass

I Teletextile sono, nelle parole della fondatrice Pamela Martinez, un baule pieno zeppo di tutte quelle cose che le mere parole non sanno descrivere. Effettivamente l’immaginario cui si rifanno i Teletextile è simile a quello delle CocoRosie o di Leslie Feist: un universo parallelo abitato da strani esserini sopra i quali sprazzi di arcobaleno colorano un cielo indaco. “Glass”, secondo album dopo l’immaturo “Care Package”, risente di queste visioni nonsense ma musicalmente attinge a piene mani da svariati ambiti della scena musicale mondiale: dal soul di Etta James (scomparsa pochi giorni or sono) alla poesia di George Harrison, dal crudo realismo di PJ Harvey allo sperimentalismo di Björk, dalla flemma dei Radiohead ai suoni della sconfinata campagna texana. Assieme a Tim Cronin, Alex Topornycky e Allan Mednard, la Martinez ha confezionato un prodotto molto curato – arrivando persino al math rock – che riesce a suonare incredibilmente analogico nonostante l’apporto pervasivo dell’elettronica.

Il lato sfacciatamente indie di questa band suona bene fin dal breve intro “The Moment” per poi assestarsi sullo xilofono di “I Don’t Know How To Act Here”, in cui la voce della Martinez fa venire alla mente la migliore Elisa; “What If I” sembra un cucù sgangherato, addolcito da melodiosi giochi vocali alla Kate Bush e dall’intramontabile morbidezza dell’arpa. Un brano molto pacato e introspettivo è anche “The Lark”, ritratto di un bosco stregato in cui vive un’allodola, sola e serena. Con “Gesso” arriva l’episodio prettamente barocco, dall’orchestrazione per archi all’uso del beat. Di nuovo musica frizzante con “Heartquake” che, nei passaggi ritmici, ricorda la razionale follia degli Architecture In Helsinki e l’oscura licantropia di Bat For Lashes.

AMPM Two” è il brano più ricercato dal punto di vista vocale nel quale la cantante dei Teletextile è costretta a seguire il veloce portamento del pianoforte, aiutata qui e là da un banjo o da una fisarmonica. La cadenza blues di Etta James risplende poi in “John”, di certo la migliore canzone dell’intero lavoro, grazie alla perfetta commistione di batterie, chitarre, effetti vocali e percussioni, quasi fosse il castello fortificato di un regno dal quale è impossibile fuggire. Non c’è una direzione fissa, stabile, concreta, nemmeno nella successiva “What If You”, brano largamente dedicato alla sapiente strumentazione della band. In fondo al disco troviamo due tracce legate fra loro da un’indissolubile vena di lirismo; “Safer One”, metafora dell’intero “Glass”, pare un rinunciatario addio alle cose di questo mondo, un lento ed inesorabile morire, una melanconica presa di coscienza su quanto effimera sia l’esistenza. “Safer Two” è, al contrario, l’adirata presa di posizione su quanto si possa ancora migliorare per rendere meno transitorio il passaggio di ognuno su questo mondo. Ancor più in fondo di “Glass” c’è una sorprendente ghost track consistente in dieci minuti di musica da tappezzeria, quasi fosse la versione sonora di “4.33” di John Cage: rumori d’ambiente, passi, scricchiolii, discorsi frammentari, cinguettii, echi e riverberi, odori, colori, sapori, trasmissioni radiofoniche in AM.

Glass” è un disco ambizioso ma non sono sicuro che i Teletextile riusciranno a lacerare la pesante cortina che ci preclude l’irrealtà, come invece fece con successo Lucio Fontana. Qui si intende solo raccontare il mondo rarefatto dei sogni e delle speranze, ma “Glass” cerca, senza tuttavia trovarla, una risposta all’annosa domanda dell’uomo: chi siamo?

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