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R Recensione

6,5/10

Il Complesso di Tadà

Il Complesso di Tadà

La psicologia non ha ancora sviluppato un sistema coerente e completo di definizioni per descrivere il rimpianto e il rimorso. Intuitivamente, possiamo rimpiangere un evento di cui siamo stati partecipi, direttamente o referenzialmente: sperando di poter proiettare l’indeterminatezza e le infinite possibilità sottese al concetto ontologico di futuro su di un ricordo irrimediabilmente passato, ci illudiamo di poter modificare un corso degli eventi ormai cristallizzato per sempre, di poter mendarne i difetti più vistosi. Il rimorso, che pure coinvolge l’attante in prima persona, è invece la spia del rifiuto, del rammarico, della cancellazione di qualcosa che si è fatto, detto o avallato, accompagnato dalla piena consapevolezza che è troppo tardi per avanzare qualsiasi pretesa e che la frittata, come si dice abitualmente in questi casi, è fatta. Sapevo, ad esempio, che lo scorso febbraio Filippo Timi sarebbe sbarcato in televisione, al timone di un micro-show in cinque puntate (da sette minuti l’una) esplicitamente influenzate, nel corpo e nello spirito, dalla grandiosa estetica dei varietà italiani anni ’60: eppure – sarà che ero all’estero? – ho deciso di non guardarle. Me ne sono naturalmente pentito: il mio è stato il rimorso di chi non ha dato credito ad una produzione interamente imperniata sul rimpianto.

Tadà, manco a dirlo, è un programma eccezionale, succinto ma non minimale, bislacco ma non demenziale, retromane ma non fuori dal suo tempo: se anche voi avete mancato l’appuntamento, potete sempre concedervi una seconda chance. A funzionare non è solo la perfetta gestione dei tempi del suo conduttore ma, soprattutto, l’intelligenza di chi ha ideato il format, lo stesso Massimo Martellotta dei Calibro 35 che qui, straordinariamente, appare in veste di direttore d’orchestra. Com’era la formula…? Ah, sì! Let me introduce you… Il Complesso di Tadà è, sostanzialmente, un quintetto+uno, equamente suddiviso tra chitarre, basso, batteria, Fender Rhodes, organetto Philicorda e mellotron: un vero e proprio mini-ensemble, in grado di soddisfare ogni esigenza artistica che viene presentata dall’alto. Nulla di copernicano, si intende: rielaborazioni di temi e di successi immortali della canzone italiana, discrete strumentali di raccordo fra una sezione e l’altra, un paio di chicche misconosciute. Se siete aficionados della reconquista, partita ormai un decennio fa, e siete balzati sulla vostra poltrona sbraitando “La Banda del Brasiliano!”, potete essere felici del vostro fiuto. Oltre a muoversi su coordinate teoriche simili (e non staremo qui a ripetere di quanto profondamente si siano ormai intrecciate le strade del collettivo John Snellinberg e dei Calibro 35), a fare da ponte è il nome di Serena Altavilla, assurta a notorietà prima come sostituto di lusso di Alessandro Fiori, in seno ai Mariposa, e poi come femme fatale delle formazioni revivalistiche di genere.

Nell’omonimo esordio de Il Complesso di Tadà, un portfolio per completisti a margine dell’esperienza televisiva, Serena è chiamata a due compiti alquanto ardui: trasformarsi nella Mina della liquid generation nella cover – fedele all’originale – di “Parole Parole” (Timi media, tenebroso e sicuro di sé, la parte che fu di Alberto Lupo) e calarsi nei panni di razza della Patty Pravo di “Se Perdo Te” (a sua volta italianizzazione di “The Time Has Come”, cantata da P. P. Arnold: la versione del Complesso è meno epica, più leggera, oserei dire anche meglio arrangiata). Missione complessa, ma riuscita. La sola altra voce femminile chiamata a competere nell’arena è quella, azzeccatissima, di Nina Zilli che, ne “Il Surf Delle Mattonelle” (presentato da La Cricca al Cantagiro del 1964), rivela tutte le sue potenzialità di interprete, talvolta frustrate da una scrittura ancora spuntata. Gigioneggia, sul resto, l’italo brasiliano Ramiro Levy, stabilmente in forza al Complesso e chiamato al microfono nella modernizzazione – dovuta, a posteriori amara – dell’inno beatChe Colpa Abbiamo Noi” (Rokes, 1966), in una calligrafica “Guarda Che Luna” (Fred Buscaglione, 1959) e nel primissimo Celentano barricadero (1962!) di “Si È Spento Il Sole”. Timi riappare, fugacemente, per dare corpo ad una “Sapore Di Sale” di cui si apprezza, in primo luogo, la messa in rilievo dell’eccellente ritmica: il proscenio è poi tutto per Elio, straordinario nel prestare inflessione cartoonesca e gorgheggio alla fortunatissima “Mah Na Mah Na”, il successo internazionale di Piero Umiliani.

Se non avessimo rivelato in anticipo che le rimanenti strumentali sono state scritte di pugno da Martellotta non ve ne sareste probabilmente accorti, tale è il gradiente di mimetismo che le fa suonare tali e quali ad estratti library d’epoca, leggeri spaccati funk, colorati shake, jitterbug e lenti in assidua alternanza. L’effetto tappezzeria, il più pericoloso, è scongiurato dall’esperienza maturata nel campo. D’accordo, le progressioni armoniche e i salti di intervalli rimangono sempre quelli (ma un inedito feeling bluesy sembra sgocciolare, a tratti, dai confini di “Veloce, Non Troppo”, perfetta come diapositiva pop art per i titoli di testa del programma), gli intrecci di chitarra e piano elettrico evocano vortici di torbida sensualità lounge corretta J&B (“Sottofondo Morbido”), i travasi bossa sembrano quasi una scusa per poter ficcare dei coretti femminili a tradimento (“Allegro”), il dejà senti Calibro 35 è costantemente dietro l’angolo (in “Movimentato” riascoltiamo i frammenti più sereni di “Traditori Di Tutti”) e l’uscita di scena poteva essere affidata ad un brano un po’ meno scontato de “Il Lento Delle Prove”: eppure – sarò io cieco e sordo –, nonostante la smaccata autoreferenzialità del tutto, o forse proprio per quello, il risultato finale non riesce a deludere.

Detto, fatto: si aggiunge un altro disco alla lista dei vostri ascolti dell’estate. Tadà!

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