R Recensione

7/10

Apparat

Duplex

Sbirciare in un cono di luce che porta dentro un tunnel autostradale in composizione, dove il tridimensionale è reso dai frattali flussi di agenti atmosferici, catrame ammucchiato ai bordi e pareti elastiche, assorbenti e vomitanti. Tunnel come via di passaggio e come tramite lungo cui cadere, fermarsi, temporeggiare, ascoltare, osservare il nero delineato davanti agli occhi e lo spettro dei colori miscelati, una volta chiuse le palpebre…

Sascha Ring (aka Apparat) – giunto al suo secondo lp dopo il modesto “Multifunktionsebene” – gioca fobicamente con algoritmi elettronici stratificati sfornando un campionario di micro-techno dalla battuta frenetica ma sfuggente, svariando di synth per le scenografie di sottofondo, deridendo la confusione come flusso di immagini mentali, ma rendendola poi comunque la sensazione regina su cui imbastire pattern complessi e drills ad intermittenza affilatissimi e carezzevoli.

Duplex” è ciò che avrebbero potuto fare i Plaid, o che la Warp potrebbe desiderare se solo non si fosse accovacciata nell’asetticismo più cieco… Ciò non toglie che qui vengano proprio riviste le lezioni di Autechre, Plaid e (soprattutto) di sua “maestosità” Aphex Twin (con un occhio particolare per le sue “selezioni ambientali”). Insieme però al ripescare l’esibizionismo sperimentatore di Mr. James, viene poi aggiunta una componente peculiare, in grado di rendere tutto questo flusso di centrifughe cerebrali un degno percorso nell’arte del “sentire”: infatti sotto a questa coltre di spesse lamiere sonore e di melodie violentate vige saldamente un’umanità ingenua, completamente proiettata al percepire la forza dell’esterno, catalizzandone l’essenza [della modernità] tutta e facendosi narratrice d’essa.

…Con occhio di riguardo quindi al (qui mitizzato) contrasto fra digitale ed emozionale.

Ed è come perdersi nella eco urbana di “Contradiction” - che nella sua fragilità frastornante richiama alla mente la solennità di “Mother” (Goldie) - dove una voce incredibilmente “non robotizzata” urla il proprio agio/ disagio in mezzo ad uno sfacelo sonoro di drills e bleeps. Nell’andare di questa pellicola sonora s’incontrano synth sottili e profondamente ammalianti in “Interrupt” (la prima di tre brevi episodi “sognanti”), dove si alza possente un’ambient frizzante, pungente come l’aria fredda d’inverno, ambient bistrattata che riesce a non perdere il suo potere evocativo in mezzo a rigurgiti glitches ignorantissimi (l’atmosfera inebriante, per quanto maniacalmente instabile di “Steinholz”)…

Altrove l’aria non cambia, continua a puntellare dove fa male, ed ormai è più di un dubbio la possibilità che Sascha stia visitando i territori di un concept visual-emotivo sul potere della modernità nello scorrere delle immagini mentali…

Non troverebbero spiegazioni, altrimenti, le nevrosi metasoniche di brani quali “Repeat Till Overload” e “Granular Bastard”, che comunque ben si incollano alle rilassate lande gelide dipinte di velluto grigio e porpora tremanti in “Wooden” (stupenda; come sentire i Massive Attack privati del loro appeal dub e buttati nella drill-ambient più onirica) ed in “Warm Signal” (un’aforisma melodico nel quale ritrovare un piano solitario in attesa di essere investito da una carica di umanoidi).

Ma il compenetrarsi di questi brani si erge a bellezza nei vari contrasti emotivi interni, dove impera la logica del tutto che vince e riempie di strati spessi anche il niente. E la sensazione di essere in un flusso che per forza di cose ti cattura cervello e anima, meraviglia completamente quando si lascia il disco slittare in avanti lungo il proprio percorso…

E alla fine è solo un accorgersi di essere arrivati al capolinea, dove “Negra Modelo” mette a sedere in una camera di solarità e di tante bellissime speranze – un po’ come prendere la sezione dei fiati dei Jaga Jazzist e trapiantarla in un’armonica frittura di drills & glitches – come a voler sottolineare un bisogno impellente di “finali felici” per questo sfondo di modernità…

Apparat, attraverso il suo “Duplex”, non fa altro che concedere un brillante e piacevolissimo excursus dentro una miriadi di (ormai classiche) proiezioni minimal techno/ ambient, che avevano però bisogno di una nuova personalità non-allineata e “modularmente sentimentale”. Il che rende questo viaggio di 48 minuti uno spingere in là il decorso ritmico, troppo spesso autocelebrativo, a cui troppi (grandi e non) si sono fermati…

Un artista che riesce a tradurre sublimemente l’umano sentire attraverso la matematica, insomma…

Recensione originalmente pubblicata e gentilmente concessa dalla defunta webzine www.idbox.it

V Voti

Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 1 voto.
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rubiset 7,5/10

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