The Field
The Sound Of Light [EP]
Il concept del giorno, inteso come scorrere del tempo ed alternanza chiaroscurale fra luce e tenebra, ha da sempre attirato un gran numero di band e artisti, che hanno imperniato interi lavori sul tema. Riferendoci ad un concetto più globale, possiamo certamente citare (quasi) tutto il movimento post rock, che contrappone scheletrici minimalismi a roboanti sassaiole di feedback: andando più nello specifico, invece, possiamo citare moltissimi album, facenti parte sia del movimento prog settantino (divenuto celebre anche per questi metodici studi di applicazione teorica della musica in sé) sia mastodontiche opere cronologicamente più vicine ai nostri giorni (e qui non si può non menzionare “Mellon Collie & The Infinite Sadness”, storico doppio degli Smashing Pumpkins).
Con le dovutissime proporzioni, seppur già strettamente collegati con quanto detto sopra, riparliamo dello svedese Axel Willner, in arte The Field, ad appena pochi mesi dal suo debutto discografico del 2007, “From Here We Go To Sublime”, che proponeva una miscela di minimal techno, shoegaze ed elettronica. La storia che accompagna questo EP successore, “The Sound Of Light”, è quantomeno curiosa, e merita un approfondimento. Non tanto perché è stato, e viene tuttora venduto solo via iTunes (ormai Internet ed i suoi surrogati stanno diventando la linfa vitale del mercato discografico), quanto perché è stato creato su richiesta del Nordic Light Hotel, un albergo scandinavo, come presentazione sonora dell’ottimo servizio offerto dalla reception, in tutto l’arco della giornata. Idea bizzarra, per non dire assurda!
A questo punto, vi aspetterete forse un mini lavoro da venti, venticinque minuti al massimo, ed invece qui casca l’asino: di “EP” quest’opera ha soltanto il nome. Quattro temi per oltre un’ora (!) totale. Un quarto d’ora a pezzo, in pratica. E non è prog.
Ma non preoccupatevi: la musica è ricca, ben costruita, buona.
Apre le danze “Morning”, ed è subito un platter leggero, ossessivo, robotico, quasi solare nel suo ripetersi ciclicamente. È stupefacente osservare come, nonostante ci sia una minima variazione di flusso sonoro nel pezzo, non ci si annoi ma, anzi, ci si leghi sempre di più all’incessante ritmo dei synth che scorrazzano di qua e di là, ogni tanto si dilatano come in una voragine, esplodono di lucentezza, trottano accanto a squarci electro-shoegaze e poi si distendono nuovamente in corsa.
Molta più micro nella successiva “Day”, e nel contempo molta più sostanza: l’albeggiare mattutino lascia posto ad un sole radioso e i tiepidi riverberi vengono sostituiti da caldi raggi, che sciolgono le barriere della razionalità. Si ha il senso ipercinetico della monotonia, da qualche parte fra Kraftwerk, Gui Boratto e Autechre. E si avverte anche la prima pesantezza della calura pomeridiana.
Ecco che, tra bagliori rossastri e ombre color seppia, scende la sera (“Evening”). E Willner cala giustamente il ritmo: ritmi più soffici e soffusi, suoni più lounge, quasi festaioli, con l’obbligo di prolungarsi fino ai canonici quindici minuti. Questa volta, però, non tutto è perfetto, ed il traguardo appare faticoso da raggiungere. Come se il buio annacquato del cielo avesse portato con sé anche una sbornia minimal-dance difficile da reggere.
Sono ormai le stelle, trapunte su un blu oltremare, a rischiarare il paesaggio. È notte (“Night”). I loop girano, girano, girano e vengono centrifugati in una salsa sintetica che, talvolta, trascende in una vera e propria schermata elettrolitica, che potrebbe appartenere benissimo a dei Depeche Mode in rota. Il tutto crea un effetto misterioso, quasi psichedelico. La notte appartiene ai sognatori.
Finisce qui quest’ora.
Un disco difficile da capire, da ascoltare, da approfondire. Ma che ha, nella sua continuità, la giusta chiave di lettura. E forse vi verrà la tentazione di ripetere l’esperienza: nel frattempo, congratulazioni al Nordic Light Hotel!
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