Carla dal Forno

You Know What It's Like

Australiana di base a Berlino ma di chiare origini italiane, Carla dal Forno è già da un po’ nel giro della Blackest Ever Black (sua la voce nel bel disco dei F Ingers del 2015), sicché non stupisce che sia l’etichetta inglese più nera del nero a pubblicare il debutto a suo nome.

Le otto tracce di “You Know What It’s Like” alternano forse persino troppo macchinalmente brani strumentali a brani cantati, a spartirsi il disco a metà. Nessuna delle due facce dell’album delude. La voce non si discosta quasi mai da una tonalità algida (la compagna di etichetta Tropic of Cancer insegna), volentieri sommersa dalle sottili mitragliate dei beat, ma a fare la differenza sono le melodie, ripetute fino a diventare solchi che si incidono subdoli sul tappeto di tastiere: eccellenti le scale discendenti di “What You Gonna Do Now” e della title-track (su sfondo di hauntologia pura), che vanno a formare assieme a “Fast Moving Cars” una spietata analisi di una relazione finita («no longer habit to be in bed alone / or to be silent, drinking on my own»).

Quasi sempre, sottopelle, chitarre che apprendono la lezione di Forest Swords e fanno diventare scheletri e scorie la struttura stessa dei pezzi, con effetti che a volte sembrano restituire un riflesso di Portishead (“The Same Reply”).

Dove la voce sparisce, ci si incunea in spazi cavernosi tra minimal wave venata di dark (“DB Rip”: il suo tributo a Bowie, suppongo) e infiltrazioni di umidori esotici in salsa stregonesca (“Dry in the Rain”: percussioni tribali, flauti e campanelli per una specie di Sun Araw andato a male), per effetti ipnotici colmi di una sottile inquietudine che si fanno meno interessanti nell’intro (“Italian Cinema”) e nei ricami di elettronica progressiva di cui è screziata “Dragon Breath”.   

Anche a causa della delusione del nuovo Raime, disco Blackest Ever Black dell’anno, e bella, scurissima, promessa.