R Recensione

8,5/10

Lizzy Mercier Descloux

Mambo Nassau

È singolare, per non dire superlativo, che fra tanti esemplari di “prede musicali” belli e pronti per la consumazione, l’intellettualismo perverso della no-wave abbia finito con l’azzannare la disco music, da sempre spina nel fianco della cultura punk. Ancor più singolare è constatare come questa tendenza alla caccia non abbia contagiato esclusivamente la deriva più anarchica e free-jazz oriented del movimento (vedasi James Chance e il suo sax in perenne sofferenza da coitus interruptus) ma, all’opposto, si sia esteso all’interfaccia funk allattata al seno color lenzuolo pallido della new wave (A Certain Ratio, Liquid Liquid). E poi, andiamo, chi avrebbe mai scommesso due lire – oops, euro – che tre “black sistas” come le ESG si sarebbero trovate a condividere studio e mixer col “factoriano” Martin Hannett? Davvero superlativo, gente.

Anche la graziosa Lizzy Mercier Descloux ha vissuto sulla propria pelle gli effetti di questo scombussolamento “danzereccio”. Ella, anzi, ha ulteriormente aggrovigliato la matassa, se è vero (ed è vero) che la sua musica si fa specchio di ben tre conquiste: la mutazione del bacillo no-wave nel virus aerobico della mutant disco, il travaso di quest’ultima in una deriva “afro-funk-minimal-wave” di sconcertante attualità (all’epoca, il termine world music era poco più d’una sciccheria esotica), e infine – aspetto di certo non secondario, ma poco sottolineato – l’interesse per partiture chitarristiche in odor di minimalismo, colme di quei riff “angolari” e moduli diatonici che, fra corsi e ricorsi storici, giungeranno fin dalle parti del post-rock. Sconforta, alla luce di siffatte considerazioni, toccare con mano il disinteresse che ancora circonda quest’artista “totale” (poetessa, pittrice, fotografa, musicista, attrice coinvolta nel New Cinema di estrazione "punkeggiante") a cui nemmeno la morte, avvenuta soli quattro anni fa, ha portato una briciola di gloria postuma (Reynolds, nel volume “Post-Punk”, nemmeno la cita).

Eppure la puledrina francese (classe 1956) vantava amicizie illustri: non solo era pappa e ciccia con Richard Hell e Patti Smith sin dalla tenera età di ventun anni, cioè da quando aveva lasciato la sua boutique parigina per vivere alla bohemien in un appartamento di Lower East Side (il quartier generale dell’intellighenzia “no-newyorkese”), ma aveva pure avuto la fortuna di gestire la precedente attività assieme a Michel Esteban (nientepopodimeno…), futuro cofondatore della ZE Records, colui il quale avrebbe dato il via alla “corsa all’oro” della dance-punk underground. Più raccomandata di così…

“Qualsiasi cosa + ritmo disco”: questa l’efficace definizione – quasi un manifesto programmatico, a ben vedere – coniata dalla stampa per i prodotti targati ZE. Nella sua telegrafica stringatezza, essa inneggiava a una eccitante rivoluzione di forme e contenuti (elitarismo riverso in un mosaico di cosce sudate, baldoria edonistica e provocazioni dada), mutando le coordinate geo-semiotiche di un linguaggio (la disco, appunto) squisitamente neutro e, proprio per questo, permeabile ad ogni sostanza – anche il più infimo dei liquami – con cui veniva a contatto. Inutile dire che per Mercier Descloux questa filosofia era un must, anche se il suo fu un percorso graduale, iniziato assieme a D.J. Banes nel duo Rosa Yemen con la definizione di uno stile chitarristico scarno, minimale. L’acerbo ma già spettacolare EP omonimo (ZE, 1978) mette in fila sei schizzi a carboncino intessuti di trame sospese (in “Herpes Simplex” vengono in mente gli Slint di “Don Aman”), sui quali la voce bofonchia come una Lydia Lunch in pieno dopo-sbornia o declama slogan criptici (“Métabolisme!”) in tono malizioso, dolcemente “svanito”. In breve: un suono che non aveva eguali nella No-New York di fine ’70s.

L’esordio da solista “Press Color” (ZE, 1979) si situa a mezza via fra pulsioni no-wave e la nascente infatuazione per la black music: a testimoniarlo è l’urticante “Fire” (cover del classico di Arthur Brown, nonché uno dei più grandi inni mutant disco mai concepiti), dove le braci scoppiettanti dei Boney M di “Daddy Cool” e chitarre sulfuree alla Phil Manzanera (Roxy Music) si scambiano un french kiss d’abulica sensualità. L’album, oltre che di geometrie ritmiche ed equilibrismi vocali (“Golden Throat”), vive dei continui cambi d’abito della diva, decisa a rileggere in chiave post-moderna temi di Lalo Schifrin (“Mission Impossible”, Jim On The Move”) e persino l’arcinota “Fever” (quella riproposta anche sul primo Cramps, per intenderci…), qui trasformata nello sketch demenziale di “Tumor”: un numero che farebbe morire dalle risate, se non fosse che Lizzy di tumore c’è morta davvero.

Questo, in soldoni, il cammino della Mercier Descloux fino all’infatuazione per la musica africana (galeotte furono le registrazioni etniche raccolte dall’etichetta “Ocora”) e la decisione d’incorporare quelle suggestioni nel suo sound già bello che meticcio. L’idea, sebbene in parte mutuata dai Talking Heads di “Remain In Light”, se ne distanzia per l’approccio (entusiasmo naif in luogo del rigore scientifico imposto da Eno) e per il risultato: se infatti quello delle “Teste Parlanti” è spiritualismo terrigno incamerato a fatica nelle maglie post-biologiche dell’Occidente, quello della nostra pulzella d’Orléans resta inconsapevole luogo di gioco in cui ancora s’aggirano il pupazzetto assassino della mutant disco, le barbie  “borchiate” della new wave in gonnella (Raincoats, Slits), le girandole colorate di Was (Not Was) e Kid Creole & The Coconuts. Un luna-park, insomma, ma non scevro dalla patina “artistoide” che da sempre contraddistingue l’operato dei musicisti più cool della Big Apple.

Per le registrazioni, Mercier Descloux volò alle Bahamas col batterista Bill Perry e il co-produttore giamaicano Steven Stanley (già alla consolle per Grace Jones e in seguito per i Tom Tom Club di Tina Weymouth e Chris Frantz), e lì si circondò di altri collaboratori preziosi come Yahn Leker (chitarra), Philip Lemongne (basso), Gregory Zercinsky (percussioni) e soprattutto il mago del synth Wally Badarou (l’anno successivo se lo sono accaparrati proprio i Talking Heads, che coincidenza…). “Mambo Nassau”, pubblicato dalla ZE nel 1981 e ristampato nel 2003 con l’aggiunta di cinque bonus track, è il coronamento dei loro sforzi congiunti, nonché uno degli album più avventurosi dell’era.

Non so perché, ma mi piace ascoltarlo immaginandone (e decostruendone) il gusto e la consistenza, manco fosse un cesto di frutti tropicali dipinto da Picasso in persona. Una “papaia cubista” (ridete pure…) nella cui polpa trovano spazio costrutti armonici spezzettati dal fittissimo interplay (le serpentine di “Room Mate”), avant-funk poliglotta (“Flipped Disc”) e pure qualche stranezza da cabaret (“Milk Shiek”, che altro non è se non la ripresa fedele del motivetto “Bevete più latte, il latte conviene” composto da Nino Rota per “Boccaccio 70”). Infine c’è Lizzy, la bambina terribile che sbraita fonemi o sillaba ridicoli nonsense (“Aaaah cha cha cha, in the pampa…”): voce libratasi a divertito sberleffo infantile, gioia primigenia al contatto con la terra, la sabbia, l’acqua del mare. A volte pare una Cindy Lauper cresciuta in una tribù indigena, se mi passate il paragone; o una Ari Up (Slits) capitata per pura coincidenza alla scuola d’arte mentre rincasava, ubriaca, da un soundsystem di Bristol.

Arduo passare al setaccio un album di simile compattezza, però ci si può provare. Magari estrapolando dal contesto un gioiello come “Sports Spootnick”, 4/4 metronomico ma sezionato in poliritmie, tanto che la base stessa sembra pericolante, come assemblata da frammenti (due colpi di rullante, una pestata di grancassa, congas intermittenti), con la sei corde calypso che cicala in combutta coi campanelli, il basso slappato con gusto e il synth “imbucato” a stupire con gli effetti speciali. Ancora meglio (forse…) fanno la commovente “Payola” e “Bim Bam Bum”: la prima una balbuzie di metallurgie atonali alla Arto Linsday “ricomposta” da cori africani e intricati incastri armonico-ritmici di chitarre; la seconda una premonizione di “Close To Me” dei Cure (addirittura quel fischiettio di tastiera…) con remoti echi ska di casa 2-Tone, presto rifugiatasi in un morbido (e melodicissimo) intreccio strumentale già “virtualmente” Tortoise. Niente però batte in energia il terremoto epidermico di “Funky Stuff” (originariamente di Kool & The Gang), infuocato menage a trois fra James Brown, Fela Kuti e la “punkette” Penelope Houston degli Avengers (“Once you go black…”) dove la vocalità della Mercier Descloux straripa selvaggia, persa in una baraonda di proclami gigioneschi (“Dance! Dance! Everybody Dance!”) e urgenza discotecara.

Il resto sono un merengue fumettistico degno della Yellow Magic Orchestra (“Five Troubles Mambo”) e persino un ibrido transgenico fra be-bop, salsa e doo-wop (“It’s You Sort Of”) come avrebbero potuto farlo i Residents se avessero messo da parte per un secondo la consapevolezza di essere gli eredi di Frank Zappa anche nel cazzeggio gratuito. Su tutto, trionfa la gioia della/nella musica. Un disco curato fino al minimo dettaglio, ma fatto col cuore e al cuore – per mezzo di gambe e sculettamenti – diretto. Una danza rituale pensata come divertissement intellettuale, musica “corporea” nella sua accezione più elevata e ambigua. Una musica che è vortice di fiori tropicali e maleodoranti marciapiedi della metropoli e che, nel suo cosmopolitismo al technicolor, si offre come spaccato di ambizioni umanistiche e tumulti urbani, entrambi coesi in un unico, frastagliato assalto ritmico.

Complici problemi di distribuzione, il disco non registrò vendite significative negli States, ma nella vecchia Europa la sensazione fu tale da far guadagnare alla Mercier Descloux un contratto con la CBS francese; “Mais Où Sont Passées Les Gazelles” (CBS, 1984), inciso in Sud Africa con musicisti locali, venne persino decretato “album dell’anno” dalla critica d’oltralpe e creò un piccolo caso all’interno della scena pop-rock del paese, specie per il respiro multietnico della Title Track (Paul Simon intanto prendeva appunti): “Musica sudafricana che, per quanto incredibile possa sembrare, ricorda i Velvet Underground”, sentenziò con cognizione di causa Michel Esteban.

Da allora l’esistenza di Lizzy Mercier Descloux proseguì nomade e libera, sulle orme del suo mito Rimbaud, fra un viaggio in Africa (per fortuna evitando la tratta degli schiavi…), perlustrazioni dello Sri Lanka e il sogno mai realizzato di portare musicisti sudafricani in Louisiana per farli suonare musica Cajun. Ci sarà tempo giusto per altri due long playing ufficiali (“One For The Soul” del 1985, registrato a Rio De Janeiro e “graziato” dalla tromba di Chet Baker, la scialba rimpatriata di “Suspense” (1989) con Mark Cunningham dei Mars) e un album fantasma inciso a New York nel 1995 ma mai venuto alla luce, poi stop. La decisione di stabilirsi in Corsica e dedicarsi interamente a pittura e scrittura (il suo romanzo “Buenaventura” resta purtroppo incompiuto) le fu fatale: “Numquam quiescere!” dicevano i latini. Il cancro se la portò via nell’aprile del 2004, all’età di 48 anni.

All’inizio era “soltanto” la voglia matta di Esteban e del suo socio Michael Zilkha di far ballare i punk e aprire le porte della discoteca agli artisti d’avanguardia, ma presto quel prurito divenne il germe aggraziato del caos: incrocio di culture, sintesi di antico e moderno, pulviscolo quartomondista ammassato sul Mirrorball dello Studio 54 (non a caso, diversi singoli ZE e 99 Records – l’etichetta concorrente – erano fra i preferiti di Larry Levan, che li suonava regolarmente al Paradise Garage). La musica di Lizzy Mercier Descloux, come quella del talentuoso violoncellista post-disco Arthur Russell e di tanti altri, ha rappresentato la quintessenza di suddetta trasmutazione. Magari non ha avuto, a differenza di quella di colleghi illustri, la fortuna di essere campionata a dovere dai virgulti della nuova black generation (Grandmaster Flash saccheggerà “Cavern” dei Liquid Liquid per la sua “White Lines (Don’t Do It)”, mentre la sirena di “UFO” delle ESG diverrà la base di moltissime produzione hip-hop), ma ugualmente ha incarnato al meglio l’ansia di rinnovamento che attanagliava i primi anni ‘80. Rinnovamento che, per paradosso, ha riguardato più il mondo della dance che quello del rock a stelle e strisce, quest'ultimo ripresosi dalla sbornia o celebrando la tradizione (rockabilly, blues) o, al contrario, esasperando il proprio versante “rumoroso” con hardcore-punk e noise (eppure immaginare i Sonic Youth senza l’esperienza Rosa Yemen mi pare impossibile).

Insomma, da qualunque parte la si rigiri, spunta sempre fuori il nome della francesina dal naso all’insù. Evidentemente qualcosa di buono deve averlo fatto, anche se la popular music, si sa, è infame e spesso dimentica volti e storie meritevoli lungo il suo percorso. E, di meriti, Lizzy Mercier Descloux ne ha avuti tanti. Sarebbe anche ora di concederglielo, voi che dite?

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Cas 9/10
Gabs 7/10

C Commenti

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TheManMachine alle 23:18 del 26 luglio 2008 ha scritto:

I gioielli dimenticati dai più e ritrovati da Matteo Losi...

Adesso che mi pare di conoscere così bene questo disco, grazie alla tua recensione come sempre appassionata e documentatissima, Matteo, non resta che reperirlo e ascoltarlo! Mi ha colpito soprattutto la sensibilità artistica di Lizzy e la sua non comune capacità di armonizzare le più disparate influenze musicali, aspetti che nella tua recensione metti in evidenza da par tuo. Le tre black sistas Scroggins ESG credo fossero in realtà quattro (Deborah, Marie, Valerie, Renee), ma siccome poi tra scioglimenti e ricomposizioni della line-up hanno rimaneggiato le formazione più di una volta (in "Step Off", realizzato nel 2002, hanno suonato per esempio due figlie di Renee) diventa in effetti difficile seguire l'evoluzione delle storia della band... Ancora congratulazioni Matteo e buona estate a te!

Cas (ha votato 9 questo disco) alle 0:17 del 29 agosto 2008 ha scritto:

Accidenti! A parte i complimenti per la recensione (ma che li faccio a fare...), complimentoni anche al disco, assolutamente da rivalutare! Uff..più ascolto musica, più scopro che ce n'è sempre di più che non ho ancora ascoltato, un circolo vizioso

Gabs (ha votato 7 questo disco) alle 15:21 del 7 giugno 2011 ha scritto:

sì... ma...

Bella recensione, appassionata e documentata... e bello soprattutto leggere di Lizzy.

Preferisco Rosa Yemen, ma questo è comunque un disco molto interessante. Un pò azzardata a mio parere la connessione (suggestione?) Rosa Yemen <---> Sonic Youth. Il terreno dei SY è stato -fertilizzato- dal più lontano (cronologicamente) -humus- (chitarristico) dell'inquietante Ron Asheton. La verifica della mia tesi si trova nella colonna sonora di Velvet Goldmine e i Wylde Ratttz: una porzione di Sonic Youth si incontra con il papà Ron in questo gruppone per registrare TV Eye e... si genera a chiusura del mito un Lost Album in studio (mai pubblicato) che fa spavento da tanto è bello. Rosa Yemen e i SY c'entrano poco o niente, pur mettendoli nella stessa cesta (se così vogliamo dire) della No Wave.

loson, autore, alle 17:28 del 7 giugno 2011 ha scritto:

RE: sì... ma...

Ron Asheton, consentimi, è un riferimento molto generico: prendendola alla larga, chi del ramo noise/post-hardcore/cazzaro-shittaro non ha subito l'influsso del suo stile chitarristico? E poi Ron, distorsori fumanti a parte, era ancora ancoratissimo al blues-rock (negli assoli), alla pentatonica, tutte cose che i primissimi Sonic Youth evitavano come la peste. Che gli Stooges siano stati i loro padri putativi lo riconosco e ci mancherebbe, ma se vogliamo trovare legami stilistici molto più evidenti (e fondanti) non serve andare tanto a ritroso: ti basta pensare al coetaneo Glenn Branca, cioè il vero maestro di Moore e Ranaldo (fissazioni psichedeliche a parte). Il riferimento ai Rosa Yemen magari è azzardato, può darsi, ma io sento affinità non da poco fra i due gruppi. Soprattutto se penso al declamato di Lizzy su arpeggiato atonale, trademark perfezionato da Kim Gordon nei suoi brani più atmosferici (non so, su due piedi mi viene in mente "Bull In The Heather" che, tolta la ritmica, è praticamente un brano Rosa Yemen). Grazie per i complimenti.

Gabs (ha votato 7 questo disco) alle 4:03 del 8 giugno 2011 ha scritto:

RE: RE: sì... ma...

Beh Loson, che dire...hai ragione sulla corrispondenza Glen Branca e SY, sono d'accordissimo. Anzi, a quando una bella scrittura su Theoretical Girls o The Ascension? Nessuno sembra avere il coraggio, almeno non ancora. Non sono d'accordo del tutto con te sulla -genericità- del mio riferimento Asheton, che è molto più pregnante di quanto possa sembrare. Oltremodo riduttivo relegarlo nel minestrone punk, junkie, garage, noise ecc ecc... Non è poi mica così tanto scolastico, pur se minimale, il suo incedere sulla tastiera della chitarra. Io, anche se appassionato impenitente con i polpastrelli callosi, trovo ancora difficoltà nella sincope di tv eye. Poi ancora, se vai a sentire Niagara quando stavano insieme nei D.A.M, come non riconoscere i Sonic Youth in certi momenti? Il legame c'è, eccome. Rosa Yemen era in un territorio differente, soprattutto culturale ma anche geografico. Lei era molto più intellettuale e veloce mentalmente. Il suo periodo da giovane passato con Richard Hell è stato a mio parere molto formativo. Concludo ricordandomi la tristezza della sua atroce dipartita; Lizzy era un'artista molto interessante e creativa. Grazie ancora Loson per averla qui celebrata.

loson, autore, alle 21:12 del 8 giugno 2011 ha scritto:

RE: RE: RE: sì... ma...

Rosa Yemen era qualcosa di diverso dalla gioventù sonica, non discuto. Come ho puntualizzato, mi riferivo a una specifica soluzione musicale che, secondo le mie orecchie, trova numerose corrispondenze - per struttura, esecuzione e mood - in molti pezzi dei Sonic cantati dalla Gordon. Non credo però si stia parlando di due entità distanti eoni: Lizzy faceva comunella con Hell e Patti, e la Smith è, guarda caso, un santino pure della Gordon; le strutture minimaliste + rumore per chitarra e voce sono la base sia dei Rosa Yemen che dei Sonic, con la differenza che questi ultimi avevano dalla loro un substrato più rock e, appunto, la benedizione di Branca. Ah, non intendevo assolutamente minimizzare l'operato di Ron, il quale era tutto fuorchè scolastico (certo, se suonavi rock nel '69-'70 era impossibile non replicare fraseggi blues, ma i suoi meriti per me sono altri...). Parlare di una sua influenza in campi come noise, garage o punk a me sembra un complimento, non una ghettizzazione (pure se del punk mi piacciono 4-5 cose in croce). Ricordo che in una mono sui Cramps scrissi proprio dell'enorme peso che il suo stile ebbe per il definirsi del suono terroristico di Brian Gregory... E io i Cramps li venero anche più di Britney! Eheheh ;D. Uno scritto su Theoretical Girls? Perchè no... In futuro, forse. Ciao e grazie ancora.

ozzy(d) alle 11:34 del 8 giugno 2011 ha scritto:

quoto il discorso di loson su asheton e branca in rapporto a moore-ranaldo, e direi che tra i classici ben piu' che il vecchio ron e' stato casomai importante il young elettrico per i SY.

Gabs (ha votato 7 questo disco) alle 16:37 del 8 giugno 2011 ha scritto:

A questo punto, se ci mettiamo anche il folk rock californiano, posso allora mettere anch'io tutto il cucuzzaro dorato dei vari Jeff Beck, Jimi Hendrix, Jimmy Page, Marc Bolan, compreso il Tom Verlaine dei Neon Boys...e alla fine metto pure (l'early) Link Wray, che ha iniziato da subito a suonare un pò diverso la chitarra da tutti gli altri rumoreggiando con il fuzz...

Gabs (ha votato 7 questo disco) alle 0:51 del 10 giugno 2011 ha scritto:

We're cramped...alla fine di tutto.

Ohhh, caro Loson...ecco qui finalmente una bella intersezione tra di noi: i Cramps! Anch'io li adoro tuttora dopo tanti anni; sono tra i miei preferiti. Ho avuto la fortuna di vederli dal vivo al Palalido di Milano come supporter dei Police nell'aprile del 1980 (entrambi militavano nella scuderia A&M Records). Straordinario il loro stare sul palco. A momenti il pubblico che era tutto lì per vedere i Police se li prendeva li metteva alla gogna...eh eh eh. Ho visto il luciferino Brian Gregory da pochi metri con la sua V Flying Gibson (la suonava anche Ron Asheton nel primo disco degli Stooges). Non è che sapesse suonare poi tanto bene, ah ma suonava le cose giuste, eccome... Bene, seguirò con attenzione le tue prossime emanazioni recensorie.