Lizzy Mercier Descloux
Mambo Nassau
È singolare, per non dire superlativo, che fra tanti esemplari di “prede musicali” belli e pronti per la consumazione, l’intellettualismo perverso della no-wave abbia finito con l’azzannare la disco music, da sempre spina nel fianco della cultura punk. Ancor più singolare è constatare come questa tendenza alla caccia non abbia contagiato esclusivamente la deriva più anarchica e free-jazz oriented del movimento (vedasi James Chance e il suo sax in perenne sofferenza da coitus interruptus) ma, all’opposto, si sia esteso all’interfaccia funk allattata al seno color lenzuolo pallido della new wave (A Certain Ratio, Liquid Liquid). E poi, andiamo, chi avrebbe mai scommesso due lire – oops, euro – che tre “black sistas” come le ESG si sarebbero trovate a condividere studio e mixer col “factoriano” Martin Hannett? Davvero superlativo, gente.
Anche la graziosa Lizzy Mercier Descloux ha vissuto sulla propria pelle gli effetti di questo scombussolamento “danzereccio”. Ella, anzi, ha ulteriormente aggrovigliato la matassa, se è vero (ed è vero) che la sua musica si fa specchio di ben tre conquiste: la mutazione del bacillo no-wave nel virus aerobico della mutant disco, il travaso di quest’ultima in una deriva “afro-funk-minimal-wave” di sconcertante attualità (all’epoca, il termine world music era poco più d’una sciccheria esotica), e infine – aspetto di certo non secondario, ma poco sottolineato – l’interesse per partiture chitarristiche in odor di minimalismo, colme di quei riff “angolari” e moduli diatonici che, fra corsi e ricorsi storici, giungeranno fin dalle parti del post-rock. Sconforta, alla luce di siffatte considerazioni, toccare con mano il disinteresse che ancora circonda quest’artista “totale” (poetessa, pittrice, fotografa, musicista, attrice coinvolta nel New Cinema di estrazione "punkeggiante") a cui nemmeno la morte, avvenuta soli quattro anni fa, ha portato una briciola di gloria postuma (Reynolds, nel volume “Post-Punk”, nemmeno la cita).
Eppure la puledrina francese (classe 1956) vantava amicizie illustri: non solo era pappa e ciccia con Richard Hell e Patti Smith sin dalla tenera età di ventun anni, cioè da quando aveva lasciato la sua boutique parigina per vivere alla bohemien in un appartamento di Lower East Side (il quartier generale dell’intellighenzia “no-newyorkese”), ma aveva pure avuto la fortuna di gestire la precedente attività assieme a Michel Esteban (nientepopodimeno…), futuro cofondatore della ZE Records, colui il quale avrebbe dato il via alla “corsa all’oro” della dance-punk underground. Più raccomandata di così…
“Qualsiasi cosa + ritmo disco”: questa l’efficace definizione – quasi un manifesto programmatico, a ben vedere – coniata dalla stampa per i prodotti targati ZE. Nella sua telegrafica stringatezza, essa inneggiava a una eccitante rivoluzione di forme e contenuti (elitarismo riverso in un mosaico di cosce sudate, baldoria edonistica e provocazioni dada), mutando le coordinate geo-semiotiche di un linguaggio (la disco, appunto) squisitamente neutro e, proprio per questo, permeabile ad ogni sostanza – anche il più infimo dei liquami – con cui veniva a contatto. Inutile dire che per Mercier Descloux questa filosofia era un must, anche se il suo fu un percorso graduale, iniziato assieme a D.J. Banes nel duo Rosa Yemen con la definizione di uno stile chitarristico scarno, minimale. L’acerbo ma già spettacolare EP omonimo (ZE, 1978) mette in fila sei schizzi a carboncino intessuti di trame sospese (in “Herpes Simplex” vengono in mente gli Slint di “Don Aman”), sui quali la voce bofonchia come una Lydia Lunch in pieno dopo-sbornia o declama slogan criptici (“Métabolisme!”) in tono malizioso, dolcemente “svanito”. In breve: un suono che non aveva eguali nella No-New York di fine ’70s.
L’esordio da solista “Press Color” (ZE, 1979) si situa a mezza via fra pulsioni no-wave e la nascente infatuazione per la black music: a testimoniarlo è l’urticante “Fire” (cover del classico di Arthur Brown, nonché uno dei più grandi inni mutant disco mai concepiti), dove le braci scoppiettanti dei Boney M di “Daddy Cool” e chitarre sulfuree alla Phil Manzanera (Roxy Music) si scambiano un french kiss d’abulica sensualità. L’album, oltre che di geometrie ritmiche ed equilibrismi vocali (“Golden Throat”), vive dei continui cambi d’abito della diva, decisa a rileggere in chiave post-moderna temi di Lalo Schifrin (“Mission Impossible”, Jim On The Move”) e persino l’arcinota “Fever” (quella riproposta anche sul primo Cramps, per intenderci…), qui trasformata nello sketch demenziale di “Tumor”: un numero che farebbe morire dalle risate, se non fosse che Lizzy di tumore c’è morta davvero.
Questo, in soldoni, il cammino della Mercier Descloux fino all’infatuazione per la musica africana (galeotte furono le registrazioni etniche raccolte dall’etichetta “Ocora”) e la decisione d’incorporare quelle suggestioni nel suo sound già bello che meticcio. L’idea, sebbene in parte mutuata dai Talking Heads di “Remain In Light”, se ne distanzia per l’approccio (entusiasmo naif in luogo del rigore scientifico imposto da Eno) e per il risultato: se infatti quello delle “Teste Parlanti” è spiritualismo terrigno incamerato a fatica nelle maglie post-biologiche dell’Occidente, quello della nostra pulzella d’Orléans resta inconsapevole luogo di gioco in cui ancora s’aggirano il pupazzetto assassino della mutant disco, le barbie “borchiate” della new wave in gonnella (Raincoats, Slits), le girandole colorate di Was (Not Was) e Kid Creole & The Coconuts. Un luna-park, insomma, ma non scevro dalla patina “artistoide” che da sempre contraddistingue l’operato dei musicisti più cool della Big Apple.
Per le registrazioni, Mercier Descloux volò alle Bahamas col batterista Bill Perry e il co-produttore giamaicano Steven Stanley (già alla consolle per Grace Jones e in seguito per i Tom Tom Club di Tina Weymouth e Chris Frantz), e lì si circondò di altri collaboratori preziosi come Yahn Leker (chitarra), Philip Lemongne (basso), Gregory Zercinsky (percussioni) e soprattutto il mago del synth Wally Badarou (l’anno successivo se lo sono accaparrati proprio i Talking Heads, che coincidenza…). “Mambo Nassau”, pubblicato dalla ZE nel 1981 e ristampato nel 2003 con l’aggiunta di cinque bonus track, è il coronamento dei loro sforzi congiunti, nonché uno degli album più avventurosi dell’era.
Non so perché, ma mi piace ascoltarlo immaginandone (e decostruendone) il gusto e la consistenza, manco fosse un cesto di frutti tropicali dipinto da Picasso in persona. Una “papaia cubista” (ridete pure…) nella cui polpa trovano spazio costrutti armonici spezzettati dal fittissimo interplay (le serpentine di “Room Mate”), avant-funk poliglotta (“Flipped Disc”) e pure qualche stranezza da cabaret (“Milk Shiek”, che altro non è se non la ripresa fedele del motivetto “Bevete più latte, il latte conviene” composto da Nino Rota per “Boccaccio 70”). Infine c’è Lizzy, la bambina terribile che sbraita fonemi o sillaba ridicoli nonsense (“Aaaah cha cha cha, in the pampa…”): voce libratasi a divertito sberleffo infantile, gioia primigenia al contatto con la terra, la sabbia, l’acqua del mare. A volte pare una Cindy Lauper cresciuta in una tribù indigena, se mi passate il paragone; o una Ari Up (Slits) capitata per pura coincidenza alla scuola d’arte mentre rincasava, ubriaca, da un soundsystem di Bristol.
Arduo passare al setaccio un album di simile compattezza, però ci si può provare. Magari estrapolando dal contesto un gioiello come “Sports Spootnick”, 4/4 metronomico ma sezionato in poliritmie, tanto che la base stessa sembra pericolante, come assemblata da frammenti (due colpi di rullante, una pestata di grancassa, congas intermittenti), con la sei corde calypso che cicala in combutta coi campanelli, il basso slappato con gusto e il synth “imbucato” a stupire con gli effetti speciali. Ancora meglio (forse…) fanno la commovente “Payola” e “Bim Bam Bum”: la prima una balbuzie di metallurgie atonali alla Arto Linsday “ricomposta” da cori africani e intricati incastri armonico-ritmici di chitarre; la seconda una premonizione di “Close To Me” dei Cure (addirittura quel fischiettio di tastiera…) con remoti echi ska di casa 2-Tone, presto rifugiatasi in un morbido (e melodicissimo) intreccio strumentale già “virtualmente” Tortoise. Niente però batte in energia il terremoto epidermico di “Funky Stuff” (originariamente di Kool & The Gang), infuocato menage a trois fra James Brown, Fela Kuti e la “punkette” Penelope Houston degli Avengers (“Once you go black…”) dove la vocalità della Mercier Descloux straripa selvaggia, persa in una baraonda di proclami gigioneschi (“Dance! Dance! Everybody Dance!”) e urgenza discotecara.
Il resto sono un merengue fumettistico degno della Yellow Magic Orchestra (“Five Troubles Mambo”) e persino un ibrido transgenico fra be-bop, salsa e doo-wop (“It’s You Sort Of”) come avrebbero potuto farlo i Residents se avessero messo da parte per un secondo la consapevolezza di essere gli eredi di Frank Zappa anche nel cazzeggio gratuito. Su tutto, trionfa la gioia della/nella musica. Un disco curato fino al minimo dettaglio, ma fatto col cuore e al cuore – per mezzo di gambe e sculettamenti – diretto. Una danza rituale pensata come divertissement intellettuale, musica “corporea” nella sua accezione più elevata e ambigua. Una musica che è vortice di fiori tropicali e maleodoranti marciapiedi della metropoli e che, nel suo cosmopolitismo al technicolor, si offre come spaccato di ambizioni umanistiche e tumulti urbani, entrambi coesi in un unico, frastagliato assalto ritmico.
Complici problemi di distribuzione, il disco non registrò vendite significative negli States, ma nella vecchia Europa la sensazione fu tale da far guadagnare alla Mercier Descloux un contratto con la CBS francese; “Mais Où Sont Passées Les Gazelles” (CBS, 1984), inciso in Sud Africa con musicisti locali, venne persino decretato “album dell’anno” dalla critica d’oltralpe e creò un piccolo caso all’interno della scena pop-rock del paese, specie per il respiro multietnico della Title Track (Paul Simon intanto prendeva appunti): “Musica sudafricana che, per quanto incredibile possa sembrare, ricorda i Velvet Underground”, sentenziò con cognizione di causa Michel Esteban.
Da allora l’esistenza di Lizzy Mercier Descloux proseguì nomade e libera, sulle orme del suo mito Rimbaud, fra un viaggio in Africa (per fortuna evitando la tratta degli schiavi…), perlustrazioni dello Sri Lanka e il sogno mai realizzato di portare musicisti sudafricani in Louisiana per farli suonare musica Cajun. Ci sarà tempo giusto per altri due long playing ufficiali (“One For The Soul” del 1985, registrato a Rio De Janeiro e “graziato” dalla tromba di Chet Baker, la scialba rimpatriata di “Suspense” (1989) con Mark Cunningham dei Mars) e un album fantasma inciso a New York nel 1995 ma mai venuto alla luce, poi stop. La decisione di stabilirsi in Corsica e dedicarsi interamente a pittura e scrittura (il suo romanzo “Buenaventura” resta purtroppo incompiuto) le fu fatale: “Numquam quiescere!” dicevano i latini. Il cancro se la portò via nell’aprile del 2004, all’età di 48 anni.
All’inizio era “soltanto” la voglia matta di Esteban e del suo socio Michael Zilkha di far ballare i punk e aprire le porte della discoteca agli artisti d’avanguardia, ma presto quel prurito divenne il germe aggraziato del caos: incrocio di culture, sintesi di antico e moderno, pulviscolo quartomondista ammassato sul Mirrorball dello Studio 54 (non a caso, diversi singoli ZE e 99 Records – l’etichetta concorrente – erano fra i preferiti di Larry Levan, che li suonava regolarmente al Paradise Garage). La musica di Lizzy Mercier Descloux, come quella del talentuoso violoncellista post-disco Arthur Russell e di tanti altri, ha rappresentato la quintessenza di suddetta trasmutazione. Magari non ha avuto, a differenza di quella di colleghi illustri, la fortuna di essere campionata a dovere dai virgulti della nuova black generation (Grandmaster Flash saccheggerà “Cavern” dei Liquid Liquid per la sua “White Lines (Don’t Do It)”, mentre la sirena di “UFO” delle ESG diverrà la base di moltissime produzione hip-hop), ma ugualmente ha incarnato al meglio l’ansia di rinnovamento che attanagliava i primi anni ‘80. Rinnovamento che, per paradosso, ha riguardato più il mondo della dance che quello del rock a stelle e strisce, quest'ultimo ripresosi dalla sbornia o celebrando la tradizione (rockabilly, blues) o, al contrario, esasperando il proprio versante “rumoroso” con hardcore-punk e noise (eppure immaginare i Sonic Youth senza l’esperienza Rosa Yemen mi pare impossibile).
Insomma, da qualunque parte la si rigiri, spunta sempre fuori il nome della francesina dal naso all’insù. Evidentemente qualcosa di buono deve averlo fatto, anche se la popular music, si sa, è infame e spesso dimentica volti e storie meritevoli lungo il suo percorso. E, di meriti, Lizzy Mercier Descloux ne ha avuti tanti. Sarebbe anche ora di concederglielo, voi che dite?
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