James Blake
The Colour in Anything
A Blake non interessa più innovare. Essere di nuovo avanguardia, immettere genetica propria nella musica.
A Blake, oggi, preme solo essere se stesso. Scrivere canzoni.
Cantautore, James Blake Litherland, iniziava ad esserlo davvero (scriveva Maradei) con Overgrown - lavoro compatto, sì, benché più diversificato rispetto all'esordio (si sentano, su tutti, Digital Lion feat. Brian Eno e Take a Fall For Me - con RZA).
Esordio in cui cover (Limit To Your Love di Feist; ma anche The Wilhelm Scream) e composizioni originali rappresentavano soprattutto il culmine, il segno di unestetica nuova. Le fondamenta del james blake sound. Le fondamenta di tanto altro soul e pop a seguire.
Grande disco, lesordio. Grande perché, nel suo compiersi, già guardava solipsisticamente avanti; in quei silenzi e in quegli spazi del pop in cui non si era ancora visto. Un album che ha saputo contaminare in ogni genere, e porsi come pietra angolare in termini di forma espressiva e canora. Capita sempre più di rado; e James Blake era al suo esordio.
Oggi, riprendiamo il discorso, i brani di The Colour in Anything si esprimono con un'essenza nuova, non sempre dipendente dalla quella sovrastruttura estetica, post dubstep soul, ora intrinseca e metabolizzata completamente dalla musica pop. Ciò ha permesso a Blake di muoversi in parallelo dalla miracolosa autoreferenzialità dellesordio; e guardare, attingere stilisticamente e nella composizione anche altrove. Ancor più che in Overgrown.
Ne esce infatti unora e diciassette minuti (alcuni, mixati e prodotti da Rick Rubin presso i Shangri-La Studios di Los Angeles) eterogenei, in cui ogni pezzo è in continuità col tutto, e col passato; passato col quale, allo stesso tempo, Blake abbozza un movimento di separazione. Non è neanche lontanamente paragonabile, qui, la messa a fuoco istantanea dei precedenti lavori (specie il debutto, chiaro); di positivo, il disco consente un nuovo sguardo sulle possibilità espressive di Blake.
Si passa, naturalmente, da beat, trill e wooble di deriva post dubstep (ad abuso dellhip hop contemporaneo: Timeless, ad esempio - sirena ossessiva e tastiere in orbita; Points) a momenti clubby e rnb (Noise Above Our Heads, "Two Man Down": linfluenza di Frank Ocean nella scrittura; di tipo minimale in Put That Away and Talk To Me), fino a riletture acid house/euro disco - I Hope My Life (1-800 mix)).
I momenti raccolti, e sono tanti, sono spesso ballate di classicismo soul e frammenti future garage (Love Me in Whatever Way, la splendida "My Willing Heart"), piano stilizzato, strutture allosso e solenni, scevre di tutto (F.O.R.E.V.E.R.: il punto dincontro tra Nina Simone ed Antony, nella carriera di Blake; Waves Know Shoes e i suoi ottoni in gloria), con questultime che confermano quanto al nostro basti proprio un nulla (in estremo, la sola voce: il vocoder a cappella di Meet Me in The Maze) per arrivare rapido e intenso a certe emozioni primarie. Classicismo blakiano e soul moderno (appunto Modern Soul) che amalgamati infittiscono strutture comunque ancorate al (suo) passato - Points: nelluso dei sub-bass, per distorsione di wooble/synth e tensione di vuoti; Radio Silence.
Mancano i pezzi davvero epocali (come, in assoluto, lo erano "Retrograde" e "Limit To Your Love"; le stesse "Radio Silence" e "I Need A Forest Fire", pur magnifiche, non reggono il confronto), vero; e qualche momento di stanca, nel mezzo ("Two Man Down", "Always" tra le altre), appesantisce un disco sorprendentemente poco coeso ed equilibrato, per gestalt, minore nella (pur breve) discografia di Blake.
Circola ancor più intimità sentimentale, dolore elaborato, se possibile. Circolano tormento e colori cupi, tonalità tendenti al blue; quelli di unanima eternamente malinconica e solitaria, ma nonostante ciò piena di speranza. Summa, in questo senso, la collaborazione (apice) con Bon Iver, I Need A Forest Fire Im saved by nature / but it always forgets what i need / I hope youll stop me before I build a wall around me / we need a forest fire.
Si capisce, allora, quanto James Blake con The Colour in Anything (annunciato a sorpresa il 5 maggio da Annie Mac su BBC 1, e rilasciato alla mezzanotte del giorno successivo; without fanfare, come scrive il Guardian) abbia sperimentato col processo creativo, con la sua identità: immettendola, pura, in tanti rivoli. Ritrovandola, alla fine, immutata e in qualsiasi cosa.
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