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6/10

The Weeknd

Echoes of Silence

Terza incarnazione in un anno per The Weeknd. Ok, forse i giovani d'oggi corrono troppo (eccomi), ma il nostro Abel Tesfaye pare davvero un concentrato inesauribile di idee: affretta i tempi, rincorre i beat, scavalca i generi. Lo avevamo lasciato a parlare di sesso, droga e r'n'b nella metropoli puttana e spendacciona di "House of Balloons", paradossalmente concentrato anche di citazioni garbate (Beach House) e richiami post-punk (Siouxsie And The Banshees). Lo abbiamo ritrovato appena cinque mesi dopo con un altro LP, "Thursday", discreta conferma di quanto già espresso. Lo abbiamo risentito nei featuring con il Drake di "Take Care", due mesi dopo. E alla fine di Dicembre, nascosto tra i jingles bells natalizi, ecco che ritorna come nulla fosse con un altro LP (o mixtape, come va di moda chiamarli), questo "Echoes of Silence" che si appresta a raccogliere i frutti di ben quattro stagioni passate.

 E' passato del tempo da allora, ma è giunto il momento di raccontare. La formula non cambia: vocoder in pompa magna, vocalizzi acuti, fraseggi rap inframezzati da "baby", "woooo", "oooh" e tremolii vari, il tutto accompagnato da solide basi post-dubstep, fredde nei rintocchi, glaciali nei suoni ("Outside"). Il mood metropolitano è rimasto, quindi, se possibile ancora più cupo e rigido di prima, le basi si fanno più squadrate e oppressive ("D.D." mentre Abel forza la voce fino al ricordo del primo Michael Jackson che fu), il beat singolo è più secco, ossuto, pungente (il capolavoro da tenebra urbana "Initiation", disperatissimo nei versi lamentosi, ricchissimo di sfumature dub, controtempi, sincopi metalliche, frenate improvvise e ripartenze veloci, un Burial meets Drake nell'iperuranio delle voci ipermodulate), si lascia ancora più spazio alla batteria elettronica (le rullate slow-march di "Same Old Song" sopra il classico gioco di voci sovrapposte, il fondo ritmato di "Montreal", i battiti che rincorrono il rap affannato di Abel in "Next") e in generale tutto il suono si fa più evocativo, dark, asimmetrico, con un sviluppo più curato delle singole basi (la crescita isolata della coda di "The Fall", la seconda metà di "XO/The Host" che anticipa i versi di "Initiation" - "I got a test for you/You say you want my heart/Well baby you can have it all/There's just something I need from you/Is to meet my boys..." - stiracchiandoli e immergendoli nell'amniotico).

 A soffrire un po' nel ricalco e nella prevedibilità è la seconda parte, in particolare il trittico finale, che tende a ripetere in forma binaria lineare (voce e basi: nessuna novità) soluzioni già sentite, che non sfuggono alla nomina di riempitivi intaccando un po' la riuscita dell'album. La chiusura di questo, infatti, è tutta raccolta in una (forse troppo) languida suonata al pianoforte, una "Echoes of Silence" che disvela ancora una volta la materia essenzialmente amorosa dell'opera tutta, nella più abusata delle tematiche della fine di un rapporto: ecco, forse per il futuro The Weeknd dovrebbe allontanarsi da certi tormenti amorosi e riprendere il percorso destrutturato e marcio affrontato nel primo album e nella prima parte di questo, ripartirtendo esattamente dalle ottime intuizioni di "Initiation", vero punto di svolta.

 Niente di cui preoccuparsi, comunque. In un mondo musicale pieno di bravi ragazzi, di visi puliti e testi romantici – da James Blake a Jamie Woon – il nostro The Weeknd rimane lo sporcaccione per eccellenza: prende l'elettronica notturna e rigida di Darkstar e la immerge nell'r'n'b iper-sexual di Drake, fa spigoli ai contorni un po' ovunque e si fa sottofondo intrigante per le autostrade della notte. Magari questa volta siamo disposti ad aspettare qualche annetto per la prossima uscita, ma nel frattempo, sotto la pelle ci sentiamo già più sporchi.

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