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R Recensione

7/10

Water Borders

Harbored Mantras

Dalla Tri Angle continuano a uscire precoci ipotesi di cosa possa aver lasciato il baraccone witch house. Dopo oOoOO e Balam Acab, i Water Borders, duo da San Francisco, provano a cacciare la testa fuori dalla casa delle streghe e finiscono diritti dentro un incubo. Diciamo, post-witch. Anche se qua dentro c’è tantissima roba pre-, dall’industrial gotico anni ottanta alle soglie del dubstep passando per mostri techno, dal trip-hop più orrorifico al tribalismo ritmico da remix della neo-psichedelia anni zero. Per un esito pure troppo schizofrenico, ma pieno di spunti interessanti, e certamente da top five tra i dischi più disturbanti dell’anno.

Amitai Heller e Loric Sih giocano sull’affollamento dei pezzi, che debordano in continuazione di effetti ossessivi, ammicchi horror, loop da ipnosi dark, giochi di specchi che moltiplicano le sperimentazioni vocali in stile "L’esorcista". Il baritono dominante è da serial killer, e dalle rifrazioni di campane su cui si costruisce l'iniziale “Tread On Them”, in un caleidoscopio tutto nero, si capisce subito la sua carica paranoica. Tanto che non stupisce avere echi dei The Knife più inquietanti (“Bad Ethos”), dei Portishead spiritati di certe manipolazioni sonore su “Third”, con risultati martellanti da vero spavento (“What Wiwant”), o ancora dei Coil (“Even in the Dark”, e un po’ ovunque).

I beat, zoppicanti e sincopati, rimbombano sempre di riverberi bui, e solo a brevissime intermittenze si distendono in slanci ballabili, per lo più con l’intenzione di travolgere la propria preda, come nel tormento dell'eccellente “Feasting On Mongeese”. Per il resto, si rifrangono nell’umidore claustrofobico dei synth in un ritmo di affanno (“Miners”), senza tregua: “Seed Bank” alleggerisce per rimandare a certi tramonti jazzy degni della Bristol grigia fine ‘90, mentre “Antechamber” è piuttosto un requiem. Solo “Waldenpond.com” placa davvero, ed è non a caso il pezzo più canonico qua dentro, secondo gli sviluppi del post-dubstep più recente.

Alla fine dove lavorano ai fianchi i Water Borders fino a intontire (e a trovare una loro impronta personale) è nello studio ossessivo sul ritmo, tanto che il disco rimane addosso, oltre che per le sue tinte cupe, soprattutto per i suoi morsi nervosi e le sue cadenze sconnesse, per il suo inglobamento di suoni e accenti world, da disorientamento totale. Bello. E può pure diventare importante.

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