R Recensione

7/10

Swayzak

Some Other Country

Partiamo dalle constatazioni oggettive. La prima è che la minimal techno è ormai divenuta, anno dopo anno, fenomeno sempre più overground: magari non proprio di massa, ma comunque genere dominante sulla stragrande maggioranza dei dancefloor non dediti alla commerciale.

La seconda è che, anche in virtù di questo fatto, label ed artisti illuminati stanno tentando (e spesso riuscendo) con caparbietà di variare il canovaccio: si pensi alle ultime uscite della Kompakt, Gui Boratto e The Field su tutti, o all’ibrido tra minimal e trance del giovanissimo James Holden: uscite che, non a caso, fanno storcere un po’ il naso agli stacanovisti della minimal dura e pura.

La terza ed ultima considerazione è che se c’è qualcuno che può permettersi di definire il proprio album “una reazione a tutta quella roba minimale che è diventata un’altra forma di mainstream” senza passare per arrogante questi sono gli Swayzak: semplicemente perché James Taylor e David Brown operano da più di dieci anni (e sempre a livelli altissimi) in quella terra di nessuno che prende il nome di tech-house.

La volontà di rimanere fuori dai filoni troppo ortodossi, unita ad una cura maniacale per i dettagli ha consentito al gruppo di rimanere sempre in una corsia preferenziale che li ha portati a costeggiare, senza mai rimanerne invischiata le contaminazioni tra jazz, house e dub con Snowboarding in Argentina e Himawari, ad attraversare rombando le pulsioni electroclash di inizio secolo con Dirty Dancing e a dire la loro sul fenomeno minimal con Loops From the Bergerie.

Penultima tappa del viaggio, datata 2004: tre anni di distanza da questo Some Other Country con cui, ancora una volta, Taylor e Brown decidono di smarcarsi. Il distacco è comunque meno drastico di quello che le dichiarazioni di cui sopra potrebbero far pensare. Il suono dei due londinesi resta pelle e ossa, l’amore per il dub che caratterizza il duo dalle origini resta saldamente al suo posto, e non manca “il solito” Richard Davis, che ben figura nell'ottima No Say Goodbyes.

Lo scarto stilistico impresso dal due a questo lavoro risiede più nei dettagli, nelle suggestioni: in particolare una vena retrofuturista sembra possedere il disco e il duo, una mano svelta ad acciuffare sonorità e spunti melodici, sequenze e vezzi di produzione legati alla primissima deep house, ma anche alle atmosfere algide della techno di Detroit.

È un disco piuttosto plumbeo, Some Other Country, che implode tra i riverberi labirintici e i suoni da modernariato ’80s di Quiet Life, irrora di gocce dub le sale cupe di So Cheap, scorre spettrale attraverso Smile&Receive e si fa quasi sacrale in Claktronic, che opprime con le sue scorie techno nella serrata By The Rub Of Love e ammorba con spirali dub in They Return.

Un disco che fa poche concessioni all’ascolto, che non rinuncia quasi mai alla sua vena dark: nemmeno quando ci regala il synth pop di Silent Luv, marchiato dai modenesi Les Fauves, che si limita ad abbinare al termine dark quello ormai abusato di wave.

Un disco “difficile” se vogliamo, in cui l’arte dei due riesce a brillare nonostante la coltre scura da cui è oppresso, che forse perde qualcosa in immediatezza rispetto agli album precedenti, ma che aggiunge ulteriori punti, perlomeno in termini di coerenza e di credibilità, ad una delle sigle più solide dell’elettronica degli ultimi (quasi) quindici anni.

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target alle 16:46 del 2 ottobre 2007 ha scritto:

Ottima tech recensione!

Di loro ho "Snowboarding In Argentina", che non mi entusiasma. Forse le atmosfere più scure di questo farebbero più per me, anche se quest'anno, stando in tema, il nuovo Gui Boratto lo metto in cima alla lista.