Carl Craig & Moritz Von Oswald
Recomposed
La prima cosa che colpisce è il logo, l’iconografia regale con cui sono state infiorettate alcune fra le più esaltanti performance musicali del secolo scorso: un simbolo per chiunque abbia avuto a che fare, anche solo di striscio, con ascolti “classici”. Ciò appurato, un osservatore distratto potrebbe pensare di trovarsi al cospetto dell’ennesima (uff…) rilettura “mahleriana” targata Abbado, quando invece i nomi scolpiti nel giallo acceso dell’intestazione sono (udite, udite…) quelli di due musicisti techno. Sì, insomma… la techno, sapete no? Quella roba da ballare. Che non è “musica” perché non c’ha la batteria vera, zero chitarre… avete capito, no? La techno. Una delle cose più sconvolgenti di tutto il ‘900. E se l’hanno compreso i titolari di una più che centenaria etichetta discografica specializzata in musica classica, in futuro si spera possa riuscirci persino qualche incorreggibile indie-rocker (o è forse chiedere troppo?).
Seconda cosa: questo album poteva (sottolineo: poteva…) essere una ciofeca. D’altronde, commissionare a due musicisti contemporanei la rielaborazione di materiale composto da Maurice Ravel (il “Bolero”, la “Rapsodia Espagnola”) e Modest Mussorgsky (“Bilder einer Ausstellung”) è evento capace di dare adito alle congetture/sospetti più sfrenate/i. Ma anche qui, tranquilli… pericolo scampato. I due professionisti chiamati all’azione sono infatti Carl Craig e Moritz Von Oswald, mica pivellini: l’uno detentore delle sacre chiavi della Detroit post-“Belleville Three”, l’altro – il berlinese – artefice di quella techno rigorosa e scientifica che farà delle uscite Basic Channel un traguardo di assoluta originalità nel panorama “electronico” dei ‘90s. Artisti di cuore e cervello, dunque; qui talmente ispirati da creare qualcosa che va oltre la pur pionieristica “comunicazione fra due mondi” posta a fondamento (trasparente) dell’operazione.
Terza uscita di una collana (Mathias Arfmann e Jimi Tenor i titolari dei precedenti volumi) votata a rileggere i classici attraverso lo sguardo della modernità, “Recomposed” è polimorfo ciclope che, con occhio registratore e vigile, rievoca tanto le radici più remote del suono techno (i Kraftwerk, la “E2-E4” di Manuel Göttsching) quanto le avanguardie minimaliste che, in un modo o nell’altro, seppero generarle (Terry Riley, Steve Reich); una colossale sinfonia techno capace di inglobare la sua storia e le storie che finora non le sono ancora appartenute; opera di confine, scivolosamente borderline, in cui la manipolazione del materiale di partenza (le incisioni sono quelle dirette da Herbert Von Karajan con la Philarmonic Orchestra nel 1987) è talmente profonda da rasentare la riscrittura vera e propria. In sostanza, ci vuole davvero orecchio per riuscire a discernere qualche frammento delle partiture “incriminate” dalle alchimie perfezionate dai due stregoni del mixer.
Parte l’“Intro”: umile, dimessa, un’oasi floreale di placida beatitudine da cui prende vita il “Bolero” poi adeguatamente smembrato nel minimalismo “reichiano” dei primi due movimenti, fra serpentine di fiati messi in loop che si aggrovigliano fra loro, comiche fanfare di trombe, flauti e fagotti timidi come liceali al primo giorno di scuola (gli Art Ensemble Of Chicago passati ai frippertronics?) in un replay ininterrotto dell’eternità.
La vertigine ritmica inizia a farsi strada già nel terzo movimento – passaggio all’astrazione, il venir meno dei segni riconoscibili a cui prima ci si aggrappava – per poi esplodere letteralmente nel quarto, dove Von Oswald prende le redini del gioco e ci conduce in un universo di bolle dub, radiazioni sotterranee, frequenze metastatiche, luce fredda di tastiere mai così acide: gli universi della Basic Channel che tornano a farci visita in tutto il loro splendore, signori. Da restare pietrificati, tanto che è necessario un interludio, neutro sfumare d’archi in ostinato, per ritrovare stabilità e ripristinare la temperatura dopo quest’inferno sottozero.
Gli ultimi due movimenti sembrano invece terreno esclusivo di Craig, e non è un caso che siano anche i più sinfonici e tempestosamente romantici del lotto, con i contrabbassi a imitare passi di giganti e la quartina discendente d’archi a fondersi ciclicamente con il beat in un affresco degno del più megalomane dei cavalieri kosmische tedeschi (ossia il Klaus Schulze di “X”). Nel finale il ritmo si fa’ addirittura trascinante (le congas impazzano), jazzy, rendendo così il sesto movimento un balletto disperatamente vitale, colmo di desiderio, profondamente “craighiano”. L’anima dell’uomo che ci parla. Un sorriso che a poco a poco si spegne, impercettibilmente.
Bisognerebbe ringraziarli, questi due signori, per aver concepito un disco di tale bellezza; ma anche per aver smentito i puristi con la puzza sotto il naso, dubbiosi circa una possibile convergenza fra entità così distanti (nel tempo, nello spazio) eppure qui fuse senza il benché minimo sentore d’artificiosità. E tutto con la semplice grazia del gesto, senza forzature. Un disco storico. Sì ok è del 2008, ma è già storia. 8 pieno.
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