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R Recensione

7/10

Demdike Stare

Elemental

Gli iniziati al culto Demdike Stare hanno già avuto modo di familiarizzare con questo nuovo progetto, secondo capitolo di una vicenda artistica che, oltre a spingere al limite quella sensibilità dark-esoterica sempre più predominante in certa elettronica inglese evoluta (dal compagno di etichetta Andy Stott giù fino a Shackleton, passando per diverse produzioni di area Blackest Ever Black) è anche la perfetta litania funebre di una psicosi postmoderna ormai giunta al capolinea, gli impalpabili inesistenti anni '10 che prendono possesso della scena, un buco nero che squarcia la grana della pellicola.

Come in un perfetto colpo di teatro: quello stanco citazionismo replicante da fine dei tempi (la convinzione che nella Storia sia già stato detto e fatto tutto, e che dunque non resta altro che rielaborare quei segni in nuove combinazioni) getta ora la maschera rivelando che la Storia non esiste, sconfessandone la natura illusoria di non-luogo spettrale in cui la presenza umana è ammessa solo a livello di doppelganger (We Have Already Died). Non si esce vivi dall'hauntology, a quanto pare; ma al netto delle analisi critiche da parte dei soliti noti sull'ostinata sopravvivenza del movimento (eppure ci avevano provato a incasellarlo-paralizzarlo in improbabili microtrend a scadenza programmata) i Demdike Stare stanno in un campionato a parte. A innescare quei sottintesi, la consapevolezza istintiva che il tempo verticale e torreggiante della tradizione occidentale sembra ora adagiato su uno spazio logico piano pronto ad essere chirurgicamente inciso e dissezionato, così come in certe culture pre-moderne si incidevano tavole sacre di resoconti storici che servivano simultaneamente da libri di profezie, in base a una concezione temporale ciclica per cui passato e futuro si identificavano e si compenetravano indissolubilmente.

Una concezione che qui ritroviamo come premessa essenziale del discorso (al di là dei rimandi all'ismailismo, in cui uno dei principi cardine è la reincarnazione dell'individuo nelle fattezze dei propri discendenti) a testimoniare il passaggio di consegne tra la civiltà industriale e una condizione arcaica che reintroduce l'immateriale e l'invisibile.

Il riferimento non è casuale. L'industrial storico ci aveva abbondantemente avvertiti, prefigurando un post di tribalismi mentali, inserti etnici, circolarità percussive da rituale pagano, e qui sarà bene ricordare almeno i :zoviet*france: come modelli insuperati oltre che precursori di una formula tra le più fruttifere nella scena elettronica europea. Tutt'altro che una consolatoria deriva escapista, i richiami a culture arcaiche rappresentano essenzialmente l'unica prospettiva praticabile una volta fatto a pezzi il moderno, un tentativo concreto di ricodificazione dello spazio; I Demdike Stare si riallacciano inevitabilmente a quella tradizione, elaborando la mappatura di una vera e propria wasteland in cui percussioni sciamaniche, tessiture ambientali da horror-soundtrack, ectoplasmi techno, sampledelia occulta e casse di risonanza dub si intersecano generando dispositivi sonori arcani e impenetrabili.

Come già nel capolavoro Tryptych, anche in questo nuovo capitolo il dosaggio delle parti si arrischia spesso e volentieri su territori impervi e apparentemente incomprensibili (Kommunion delinea un paesaggio di droni sulfurei da messa nera, per poi infrangersi improvvisamente in un limbo di loop industriali che si accartocciano su sé stessi; Metamorphosis sembra filtrata da un vento gelido con propulsori che riecheggiano in lontananza, qualcosa di vagamente simile ad Hysteria degli Amnesia affogata nella trielina) a fronte di episodi più convenzionali, per quanto l'aggettivo va comunque contestualizzato a dovere: Erosion Of Mediocrity è una dubsteppata ancestrale molto sui generis, la finale Ishmael's Intent è mandata in orbita da un incastro più fisico e techy (un'attitudine che si ricollega al nuovo progetto collaterale Slant Azymuth) con ricognizioni aeree a panoramizzare, laddove invece Mnemosyne azzarda un locked groove arabeggiante tipo Muslimgauze su hip hop beats, un numero strettamente imparentato con l'Hashshashin Chant contenuto nel triplo del 2011.

Elemental dunque ripercorre in linea di massima il solco già tracciato dal suo predecessore, una continuità che lega i due progetti anche sul piano dell'organizzazione logistica della pubblicazione, anticipata da una serie di 12” a tiratura limitata (pressati su vinile colorato e raccolti in un allettante gatefold quadruplo, peraltro impreziosito dai soliti tratteggi nero su bianco a firma Andy Votel) e successivamente ricomposta nella confezione qui in esame, con diverse modifiche presenti in scaletta e l'integrazione di alcuni inediti a fare da tessuto connettivo tra i pezzi; a dire il vero, condimenti accessori che poco aggiungono alla pietanza di base. Un'operazione comunque in linea con una già verificata tendenza a sperimentare coi formati (del resto, stando a quanto affermano gli stessi Sean Canty e Miles Whittaker, il loro approccio compositivo rimanda in primo luogo all'estetica del mixtape per cui il nucleo sonoro dei pezzi viene concepito come blocco malleabile in vista di nuovi re-edits, eventualmente adattabili a diversi costrutti logici in base alla piattaforma di riferimento) e a documentare le diverse fasi del progetto in mastodontiche raccolte riepilogative. A completare il pacchetto, un funzionale apparato iconografico che non di rado si nutre di certo italo-horror classico e di oscure pellicole di serie Z dimenticate da Dio, come si nota dai video promozionali.

Difficile da decifrare è invece il concept pseudo-floreale alla base di Elemental, zero informazioni al riguardo nonostante l'artwork e i titoli dei quattro segmenti attraverso i quali si dipana l'opera: Chrysanthemum, Violetta, Rose e Iris, quest'ultimo (immagino) un riferimento al fiore che in Suspiria permetteva alla protagonista di entrare in contatto con un surreale concilio stregonesco da loggia nera. Ipotesi non improbabile se consideriamo che Canty è dichiarato estimatore della filmografia di Argento, oltre che ovviamente delle partiture che Morricone (quello paranoico in zona Crime And Dissonance, per intenderci) e Simonetti composero per il regista romano e di cui anni fa ha curato una selezione retrospettiva su Finders Keepers.

La fascinazione per il Giallo e per le colonne sonore ha un peso non secondario nella vicenda Demdike Stare, così come un'esplicita affinità con le produzioni più eccentriche e marginali legate all'ambito del library sound. Un'eredità che qui si palesa sia nei risultati (certi episodi non sono poi così distanti da quelle oscure sperimentazioni elettroniche, a metà strada tra incredibily strange e tradizione colta, che nei '60 e '70 venivano utilizzate per sonorizzare programmi radiofonici e televisivi), sia all'atto pratico del processo creativo basato su un metodico utilizzo del sampling: le succitate fonti sonore, avidamente collezionate da Canty in un corposo archivio, vengono così sminuzzate in frammenti o spalmate in soundscapes spettrali, iniettate nel sistema linfatico degli incubi sonori qui in dotazione. Ed è proprio il carattere indecifrabile e l'aura di mistero sprigionata da questi campionamenti a definire i connotati di una musica esoterica ed irrazionale: considerata la curiosità onnivora e la cultura musicale dei nostri è presumibile che ci sia di mezzo molto materiale da NWW-list, audaci sperimentazioni avanguardistiche tipo Musica Elettronica Viva o qualche misconosciuta produzione weird-psych occulta e sconsacrata alla Don Bradshaw-Leather, supposizioni totalmente campate in aria e utili solo a fornire qualche verosimile termine di riferimento. Impossibile ipotizzare l'origine degli echi infernali che rimbalzano in Mephisto's Lament, inutile immaginare da quale musica provengano i fantasmi di Dasein: come in ogni horror che si rispetti, il non-detto o il solo-accennato sono di gran lunga più suggestivi e terrificanti di ciò che è comprensibile allo sguardo.

Nota di servizio per concludere. Le alternate versions inserite in questa raccolta doppia presentano alcune differenze più o meno rilevanti rispetto agli originali: Kommunion elimina un paio di textures in apertura (sul 12” spunta una traccia vocale dal missaggio, oltre a un tappeto ambientale che suggerisce uno sviluppo più melodico) in favore di una resa sonora asciutta e ieratica, Unction cesella i timbri e dà un tocco più liquido all'insieme, la stupenda In The Wake Of Chronos taglia in coda, Falling Off The Edge ha una progressione più studiata ma cambia poco. Tanto vi dovevo, anche se non so a chi possa servire dato che quei 12” sono fuori catalogo da mesi.

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Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 2 voti.
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gull 7,5/10

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gull (ha votato 7,5 questo disco) alle 16:17 del 25 luglio 2012 ha scritto:

Progetto tra i più interessanti in assoluto (almeno per me) degli ultimi anni.

Mirko Diamanti (ha votato 7,5 questo disco) alle 15:06 del 16 ottobre 2013 ha scritto:

Così pochi commenti? Album stupendo.