Bat For Lashes
Fur And Gold
La mia estate è stata ossessionata dalla visione di una ragazza che percorre in bicicletta una strada deserta, di notte, mentre ogni tanto compaiono dietro di lei alcuni tizi, sempre in bici, con le facce coperte da inquietanti maschere animalesche. Chiaramente, non ho passato una bella estate. Almeno finché non ho scoperto che tutto ciò non era che il video di "What’s A Girl To Do", e che lei non era che Natasha Khan, inglese di Brighton che ambisce a diventare la nuova Bjork.
Il suo disco di debutto è pieno di ossessioni e di incubi come quello di cui sopra. Anche lei non deve aver passato, ultimamente, delle belle estati, ma questa che si è appena chiusa le ha sorriso senz’altro. Il suo trip-hop gotico e notturno le è valso uno stuolo di complimenti, in buona parte meritati. "Fur And Gold", senza essere un disco memorabile, è un buon lavoro, che non propone nulla di eccitantemente nuovo, ma che riporta in auge un genere e uno stile musicale che sembravano affossati dopo le ultime disavventure di Bjork, la sparizione dei Portishead e varie altre defezioni sparse.
Il disco, tutto tramato di simboli spettrali ed enigmatici, è un viaggio in un nord oscuro, attraverso melodie ossessive e suoni cavernosi. Le soluzioni elettroniche sempre molto fantasiose e surreali danno un colorito tetro alle canzoni, come il simil-clavicembalo di "Horse And I", a cui si aggiungono un moog cadaverico e una batteria marciante, con effetti medievali.
La voce della Khan, c’è poco da fare, è a volte spiaccicata a quella dell’islandese, alla quale, nonostante i tentativi più protervi e ostinati, non si può fare a meno di pensare ascoltando il disco. Se si supera lo scoglio della sovrapposizione tra le due fanciulle, si è a buon punto per poter apprezzare le atmosfere oniriche e acquose di questi pezzi, scavati in magici giochi di ombre, tra le sfumature sinuose e cupe della voce e quelle maniacali delle sonorità.
Spicca un pezzo come "Trophy", scandita da un basso e da beat ossessivi, a cui si aggiungono dei claps che creano un clima quasi tribale. Tastiere e archi si dilatano, producono fughe di suoni che si perdono e riemergono in continuazione. Ma non pensate a "Human Behaviour", per carità, sennò siete di nuovo del gatto.
Bellissime "What’s A Girl To Do", col parlato di Natasha, una batteria pesantemente trip-hop, cori spettrali e un effetto di arpeggio nuovamente gotico, "Seal Jubilee", lenta litania scandita da una chitarra effettata e da continue interpolazioni (violini, piano, xilofono, cori) che sembrano incontrollate, come comparissero sulla superficie della canzone nel buio, per poi risprofondare. Ma anche altri brani si tengono alti: così "Sarah", funky alla Saint Etienne declinato in chiave noir, o "The Wizard". Qualche brano, in compenso, si insecca in zone dominate dalla noia.
Ma il complesso regge, per compattezza e fascino. Natasha nuova paladina di un redivivo trip-hop? Sì, no, può darsi. Un disco così volutamente sibillino non suggerisce che risposte vaghe.
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